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Il momento del ‘Caracazo’

Sembra una brutta parola, ma è solo un termine spagnolo per designare la ribellione popolare che si svolse nel 1989 nella capitale venezuelana e che segnò l'ascesa della Sinistra nella nazione sudamericana. Alla luce dei disordini in Medio Oriente e Nordafrica, c'è chi sostiene che un nuovo “Caracazo” potrebbe avvenire in Venezuela, stavolta però ai danni del leader Chávez. C'è qualcosa di vero in tutto questo?

VENT'ANNI DOPO, UN NUOVO “CARACAZO”? – Il 27 febbraio del 1989 è celebrato dalla retorica bolivariana – per intenderci, quella istituita dall'attuale presidente del Venezuela Hugo Chávez – come l'inizio della rivoluzione socialista nella nazione sudamericana. Quel giorno, infatti, si scatenò nella capitale Caracas una ribellione popolare, il cosiddetto “Caracazo” appunto, in seguito alla richiesta da parte del Fondo Monetario Internazionale di alzare prezzi e tariffe, come misura necessaria per sistemare gli squilibri nelle finanze del Paese.

Più di vent'anni dopo, e dopo quasi nove anni di chavismo che hanno riportato il Venezuela ad essere governato da un regime formalmente democratico, ma sostanzialmente autoritario, nuove proteste si sono svolte nella capitale. Dal 31 gennaio al 22 febbraio 83 studenti hanno effettuato un “sit-in” e uno sciopero della fame dinanzi alla sede venezuelana dell'OSA (Organizzazione degli Stati Americani), per chiedere la liberazione di ventisette perseguitati politici, imprigionati senza ricevere un giusto processo. Il Governo ha dovuto scendere a patti con i manifestanti, accordando la liberazione di sette persone e l'istituzione di un tavolo di lavoro per il riesame della situazione giudiziaria degli altri prigionieri.

Alla luce delle ribellioni che stanno infiammando il Medio Oriente e il Nord Africa in queste settimane, c'è chi ha arditamente accostato questi fatti alle proteste in Venezuela sostenendo l'imminenza di un nuovo “Caracazo”, stavolta ai danni di Chávez. Le due situazioni sono davvero paragonabili?

 

CARACAS COME TRIPOLI? – Ci sembra davvero un azzardo accostare la rivolta del Cairo o quella di Tunisi alle proteste, tutto sommato ridotte, che si sono svolte nella capitale venezuelana. L'accostamento però è stato suggerito quando ad infiammarsi è stata la Libia di Gheddafi, con il quale Chávez intrattiene ottimi rapporti, dovuti essenzialmente alla condivisione ideologica dell'avversione al cosiddetto “imperialismo statunitense”. Addirittura, nei giorni immediatamente successivi allo scoppio dei disordini in Libia, era trapelata la notizia – poi rivelatasi infondata – di una fuga del “colonnello” in Venezuela. Nonostante il dittatore nordafricano non abbia ricevuto ospitalità ai Caraibi, ha però potuto godere dell'appoggio verbale del suo omologo sudamericano. Quest'ultimo ha infatti stigmatizzato i disordini popolari, accusando gli Stati Uniti di muovere le fila e di fomentare le proteste.

E' in effetti possibile riscontare qualche analogia tra la Libia di Gheddafi e il Venezuela di Hugo Chávez. Entrambi hanno isolato l'opposizione (l'Assemblea nazionale venezuelana era composta fino a pochi mesi fa esclusivamente da membri del PSUV, il partito del Presidente) e hanno basato il proprio potere piegando il diritto alla propria volontà e ponendo parte dell'esercito direttamente sotto la propria responsabilità. Si tratta, a ben pensarci, di tratti comuni alla maggior parte dei regimi autoritari moderni. In più, tuttavia, i due Paesi condividono lo sfruttamento delle risorse petrolifere che, tuttavia, più che diventare un motore decisivo per lo sviluppo economico e sociale, sono divenute un mezzo per creare assistenzialismo e spartire le rendite attraverso meccanismi corrotti.

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HUGO IN CRISI – Non è il caso di enfatizzare le analogie tra Tripoli e Caracas. Il Venezuela, oltre a trovarsi in un contesto geopolitico totalmente differente, può vantare una tradizione democratica (che in Libia non è mai esistita) e una società civile molto più sviluppata di quella del Paese nordafricano. Tuttavia, la contingenza attuale offre l'opportunità di evidenziare come il potere di Chávez sia indebolito, oltre che da alcune proteste interne, da una situazione economica che non fa altro che peggiorare.

Il Venezuela è l'unico Paese sudamericano in recessione: come è possibile, in un continente che sta conoscendo uno sviluppo economico senza precedenti? Nonostante Caracas sia il settimo produttore mondiale di petrolio, la risorsa viene gestita in maniera del tutto inefficiente. Oltre ad avere un sistema di vendita a prezzo sussidiato per i Paesi caraibici che gravitano nell'orbita geopolitica di Caracas, il governo socialista di Chávez ha provveduto a smantellare la maggior parte delle altre attività economiche che non fossero correlate con lo sfruttamento del petrolio, nazionalizzando centinaia di aziende. Il risultato è che ora il Venezuela è costretto ad importare tutto quello che non produce più, con effetti deleteri per la bilancia commerciale e dipendendo dall'estero (e dai prezzi altalenanti delle materie prime) per il soddisfacimento del proprio fabbisogno alimentare.

La spesa pubblica è fuori controllo: per far fronte alle crescenti spese il Governo ha prodotto in pochi anni un rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno Lordo non alto in termini assoluti, ma in crescita vertiginosa se si pensa che in un anno è passato dal 14% al 29%. Il rischio di “default”, ovvero di inadempienza rispetto al pagamento degli interessi sulle proprie obbligazioni emesse, si sta facendo concreto.

Dietro l'angolo, inoltre, ci sono le elezioni presidenziali. Nel 2012, infatti, Chávez si presenterà agli elettori per chiedere una terza rielezione. Probabilmente la frammentazione dell'opposizione potrebbero consentirgli di vincere nuovamente. Oppure i venezuelani potrebbero cominciare a fare sentire con più forza la loro voce.

 

Davide Tentori

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Davide Tentori
Davide Tentori

Sono nato a Varese nel 1984 e sono Dottore di Ricerca in Istituzioni e Politiche presso l’UniversitĂ  “Cattolica” di Milano con una tesi sullo sviluppo economico dell’Argentina dopo la crisi del 2001. Il Sudamerica rimane il mio primo amore, ma ragioni professionali mi hanno portato ad occuparmi di altre faccende: ho lavorato a Roma presso l’Ambasciata Britannica in qualitĂ  di Esperto di Politiche Commerciali ed ora sono Ricercatore presso l’Osservatorio Geoconomia di ISPI. In precedenza ho lavorato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri dove mi sono occupato di G7 e G20, e a Londra come Research Associate presso il dipartimento di Economia Internazionale a Chatham House – The Royal Institute of International Affairs. Sono il Presidente del Caffè Geopolitico e coordinatore del Desk Europa

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