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Qui il vento non soffia

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Il vento del cambiamento, quello che accompagna i grandi stravolgimenti in Medio Oriente e Maghreb, non è di casa a Gerusalemme e dintorni. Proprio dove tutti da tempo aspettano qualcosa di nuovo, sembra registrarsi una sorta di bonaccia, di immobilismo. Tra le ansie israeliane per gli avvenimenti che stanno modificando l’assetto regionale e le ipotetiche novità dal fronte palestinese, guardiamo ai possibili scenari di entrambe le parti. Con un’unica, amara certezza: una ripresa dei negoziati per il processo di pace è tutt’altro che all’ordine del giorno, e all’orizzonte non si scorgono grandi possibilità di cambiamento

 

FERMI TUTTI – È un po’ come passare tutta la notte svegli ad aspettare l’alba, e perdersela perchè il sole sorge dall’altra parte, alle tue spalle. A pensarci bene, da decenni guardiamo al Medio Oriente aspettandoci “il” cambiamento – l’accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi, che sancisca la creazione dello Stato Palestinese – convinti che da questo scaturiscano stravolgimenti, sostanzialmente positivi, in tutta la regione. Seppur semplificando, sembra ora accadere il contrario: con differenti modalità, diversi Paesi, al di là dei noti casi di Tunisia, Egitto e Libia, tanto nel Maghreb quanto in Medio Oriente stanno vedendo fasi di rivolta con possibilità inaspettatamente concrete di mutamenti nel breve-medio periodo, proprio mente tutto o quasi sembra tacere sul fronte israelo-palestinese. Innanzitutto, una simile situazione pare dover far rivedere quella che per gran parte degli osservatori sembrava l’immensa forza centrifuga e centripeta di quest’arena, come se i destini della regione – e in alcuni scenari apocalittici, del mondo intero – dipendessero da quanto avviene tra Tel Aviv e Ramallah, mentre le sorti di diversi Paesi vengono decisi spesso da chi in questi ci vive, dalle questioni interne, prima che dagli scenari regionali o globali. È questo un assunto vero anche per Israeliani e Palestinesi: osserviamo dunque alcune dinamiche interne alla società e alla politica di entrambe le parti, per valutare i possibili sviluppi futuri.

 

L’ANSIA DI TEL AVIV – La rivolta egiziana è stata vissuta in Israele con sentimenti contrastanti, tra cui l’apprensione ha sicuramente dominato la scena. Le voci che hanno provato a incoraggiare lo sviluppo democratico del vicino hanno trovato pronta risposta: “Visto cosa è successo facendo partecipare Hamas alle elezioni palestinesi?”. Lo scenario, per ora lontano, di un Egitto in mano ai Fratelli Musulmani è visto con paura da Israele, che aveva in Mubarak un prezioso alleato in grado di garantire la pace tra le due nazioni. Allargando il cerchio, è chiaro che Israele sia preoccupato dagli eventi di inizio 2011, e veda forte il rischio di un cambiamento dello status quo che peggiori la situazione di Israele, con lo spauracchio di un fondamentalismo islamico più aggressivo e radicato e l’incubo Iran che è tornato prepotentemente alla ribalta all’arrivo delle due navi iraniane nel canale di Suez praticamente all’indomani della caduta del Rais Mubarak, e con l’accordo Iran-Siria, passato sotto silenzio in Europa, per la costruzione di un porto d’appoggio per la marina militare iraniana nel Mediterraneo. Allo stesso tempo, si sta discutendo parecchio – tanto internamente quanto negli ambienti diplomatici occidentali -sulle sempre più insistenti voci che vedono Israele, per evitare il drammatico scenario di un regime fondamentalista in Libia, assoldare tramite una società (la Global Cst di Petah Tikva, già coinvolta in vendite di armi in Caucaso, Guinea, America Latina) mercenari africani per combattere a fianco degli uomini di Gheddafi.

 

FERMI E VIGILI – Dal punto di vista della ripresa dei negoziati con i Palestinesi, il segnale politico che sta dietro a queste preoccupazioni è che non è questo il momento delle concessioni, bensì quello dell’immobilismo. Non si apre su nulla, si aspetta l’evolversi degli eventi, con allerta massima sugli scenari a livello di rischio elevato: Libano, Gaza, e ovviamente Iran. Non è un caso che il premier abbia da poco nominato suo nuovo consigliere per la sicurezza nazionale Yaakov Amidror, ex generale vicino all’estrema destra, definito un “falco” per alcune sue posizioni controverse, tra cui la rioccupazione della Striscia di Gaza e l’eventualità di un attacco israeliano contro gli impianti nucleari iraniani. Nello stesso tempo, l’esercito israeliano sta riesaminando le eventuali controffensive in vista di una rivolta palestinese in Cisgiordania.

Dal punto di vista politico, poco è cambiato nel 2010 e poco sembra muoversi. L’ipotesi di un rimpasto di governo che escluda alcune ali estreme e includa i moderati centristi di Kadima, guidati dall’ex Ministro degli Esteri Tzipi Livni, appare ormai da tempo naufragata. Nel mese di gennaio si è registrato il clamoroso, anche se non inaspettato, divorzio tra i laburisti e lo storico leader Barak, attualmente Ministro della Difesa, capace di portare i laburisti all’ultima vittoria politica (fu premier nel ’99-2000, ai tempi di Camp David e dell’accordo di pace a un passo) e alla peggiore sconfitta di sempre (2009, solo 13 seggi conquistati). Barak, in rotta con gli altri vertici del partito ostili ad alcune politiche del Governo, ha così fondato un nuovo partito, Atzmaut, fedele a Netanyahu e formato da 5 deputati, di cui 4 ministri: un vero e proprio record che fa impallidire alcune operazioni trasformistiche della storia nostrana.

 

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SCONGELATI – Infine, occorre spendere qualche parola sul capitolo insediamenti. Nel settembre scorso è scaduta la moratoria sul congelamento degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi, richiesta dagli Usa (oltre che dai negoziatori palestinesi) come precondizione per riprendere i negoziati. Netanyahu, scegliendo di seguire l’alleato americano per provare a riprendere i colloqui in vista di un accordo, avrebbe corso il rischio di vedere naufragare immediatamente il suo Governo – contrario al prolungamento della moratoria – e dunque ha scelto con convinzione di rifiutare la proposta obamiana di un nuovo stop alle costruzioni, nonostante dall’altra parte tenti di frenare i rappresentanti degli insediamenti israeliani, che oltre alla mano vorrebbero tutto il braccio, continuando a chiedere un numero sempre maggiore di gare d’appalto. Gli americani non si sono in verità stracciati le vesti, e in attesa del presunto piano Obama per gli accordi di pace (che alla luce degli stravolgimenti attuali potrebbe essere sempre meno prioritario, al punto da rischiare di doverlo aspettare più o meno come Godot) anche a Washington sembra prevalere una certa rassegnazione: se non si riesce neanche ad incidere su uno stop temporaneo agli insediamenti, come si potrà decidere di smantellarne anche solo una parte in futuro, o come si potrà affrontare questioni anche più spinose, come quella dei profughi e soprattutto lo status di Gerusalemme?

 

QUI RAMALLAH – A settembre si vota. Finalmente. Sarà vero? Questo l’annuncio ufficiale del Presidente Abu Mazen, il cui mandato è scaduto da più di due anni. Tanto è vero che Hamas tuona: “Niente elezioni, sono illegittime. Potranno esserci solo dopo una riconciliazione nazionale”. Breve cronistoria: nel 2006, Hamas si presenta alle prime elezioni politiche, riuscendo a vincerle sconfiggendo lo storico partito di Arafat, Fatah, da sempre al potere dall’avvento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Nessuno nel mondo riconosce la vittoria di Hamas, assolutamente regolare per gli organismi internazionali di controllo: né Usa, né Ue, né tantomeno Fatah. Ne nasce una vera e propria guerra civile palestinese, ribattezzata Intrafada da alcuni osservatori, che sancisce il ritorno al potere di Fatah in Cisgiordania e il dominio assoluto di Hamas su Gaza (anche se il malcontento a Gaza è sempre più percepito: una manifestazione in sostegno della rivolta egiziana è stata dispersa e i promotori arrestati, segno della paura di Hamas di eventi analoghi). Dunque una Palestina con due regioni geograficamente non contigue, due soggetti distinti al potere che non si riconoscono tra loro, e nessun leader capace di parlare a nome dell’intero popolo palestinese. Difficile ipotizzare uno Stato palestinese con queste condizioni interne, al di là di tutti gli agenti esterni. I diversi tentativi di riconciliazione sono finora andati fallendo. L’Egitto, che più volte ha provato ad agire da mediatore, ha decisamente altro per la testa.  Qualcosa potrà cambiare? Nel piccolo, proprio oggi in entrambe le regioni palestinesi sono previste manifestazioni per richiedere un’unità nazionale e la riconciliazione tra Hamas e Fatah. Certo le elezioni (se vi saranno) potranno rappresentare un punto di svolta, ma per il momento permane una situazione di fortissima incertezza. I “Palestinian Papers”, rivelazioni di Al Jazeera e del Guardian circa le drastiche concessioni palestinesi agli Israeliani in vista di un ipotetico accordo, hanno portato alle dimissioni dello storico leader dei negoziatori, Saeb Erekat, ma in realtà non hanno fatto altro che mettere ulteriormente a nudo la già nota debolezza dei dirigenti palestinesi.

 

SI PROCLAMA? – Vi è un ulteriore aspetto da tenere però in considerazione. Si avvicina infatti l’estate 2011, momento fissato dal premier palestinese Fayyad in cui proclamare unilateralmente lo Stato di Palestina. Una boutade? Seppur simbolica, una simile proclamazione seguirebbe il recente riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di nove Stati sudamericani, tra cui anche Brasile e Argentina. Israele non ha accolto bene questi nuovi riconoscimenti, e di certo un simile evento potrebbe, se portato davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, portare ad effetti non scontati, difficilmente rivoluzionari, ma con la possibilità di sbloccare l’immobilismo che sembra attanagliare le parti in vista della ripresa dei negoziati.

 

NON SI CAMBIA – Insomma, non accade nulla? Qualcosa purtroppo, succede, e non è una novità. È giunta sino alle orecchie dei media italiani la recente notizia dello sterminio di un’intera famiglia israeliana nell’insediamento di Itamar, in uno dei più gravi fatti di sangue degli ultimi anni. Cinque vittime civili trucidate, tra cui tre bimbi, uno di tre mesi. Nessuna organizzazione ha rivendicato il gesto. Il Governo israeliano ha deciso per la prima volta in simili situazioni di rendere pubbliche le foto dell’accaduto, e il giorno dopo l’eccidio ha risposto con l’approvazione della costruzione di quattrocento nuove unità abitative in quattro insediamenti israeliani in Cisgiordania. Con tanti saluti a una possibilità di ripresa nel breve periodo del processo di pace. Il discorso appare cinico, ma finchè – da entrambe le parti – non si riuscirà ad andare oltre ad un certo numero di vittime per provare a insistere sul cammino dei colloqui di pace, se ogni volta occorrerà ricominciare da capo, sarà impossibile arrivare ad un accordo definitivo. Prima o poi Israeliani e Palestinesi dovranno decidere come dividere l’appartamento che abitano, quali stanze tenersi. Da anni siamo fermi al congelamento degli insediamenti, che nel paragone conta come le tendine del bagno. Possibili cambiamenti non sembrano essere all’orizzonte. Se volete delle novità, girate la testa, e guardatevi intorno, non qui.

 

Alberto Rossi

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Alberto Rossi
Alberto Rossi

Classe 1984, mi sono laureato nel 2009 in Scienze delle Relazioni Internazionali e dell’Integrazione Europea all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Scienze Politiche). La mia tesi sulla Seconda Intifada è stata svolta “sul campo” tra Israele e Territori Palestinesi vivendo a Gerusalemme, città in cui sono stato più volte e che porto nel cuore. Ho lavorato dal 2009 al 2018 in Fondazione Italia Cina, dove sono stato Responsabile Marketing e analista del CeSIF (Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina). Tra le mie passioni, il calcio, i libri di Giovannino Guareschi, i giochi di magia, il teatro, la radio.

Co-fondatore del Caffè Geopolitico e Presidente fino al 2018. Eletto Sindaco di Seregno (MB) a giugno 2018, ha cessato i suoi incarichi nell’associazione.

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