Rispetto agli Stati dell’America Latina il Perù è quello che scelto una strada diversa pur partendo da premesse simili agli altri Paesi dell’area e che ora sta giungendo a risultati interessanti.
L’ASCESA DI HUMALA – Il presidente Ollanta Humala è stato eletto nel giugno 2011 sconfiggendo Keiko Fuijmori, figlia del dittatore ultra-nazionalista degli anni ’90. Humala ha vinto con un programma nazionalista ma di ispirazione socialista, è stato vicino a Chávez e poi inaspettatamente ha virato a destra quando le resistenze degli indios hanno fatto naufragare il “proyecto Conga”; da quel momento in poi niente più appoggio dell’associazionismo e degli ambientalisti, così come era accaduto anche a Evo Morales.
Il Perù ha saputo imboccare con decisione la strada del liberismo riformista, scacciando le paure di chi lamentava un continente troppo sbilanciato a sinistra con figure importanti e carismatiche come Chávez, Correa e Morales contemporaneamente. Al loro contrario, Humala ha puntato sull’estero e non sulla costruzione del consenso interno, preferendo scegliere come proprio obiettivo la continuità nella crescita (già forte sotto la presidenza dell’economista Alan Garcia) piuttosto che la redistribuzione delle risorse. E per riuscirci aveva bisogno di credibilità internazionale e di aprire il Paese agli investimenti diretti esteri.
Il popolo peruviano ha deciso di voltare pagina e di lasciarsi alle spalle Fujimori ed i conflitti, sanguinosi, con la guerriglia maoista di Sendero Luminoso e con i cocaleros che, allontanati dalla Colombia, stanno trovando rifugio sulle ricche alture peruviane. Scegliendo Humala il Perù ha virato a sinistra ma il suo presidente, dopo poco, ha intrapreso una direzione contraria. Niente rivendicazioni ideologiche, un certo nazionalismo ma quanto basta per tenere unito il Paese e soprattutto tanta stabilità. Inclusione sociale come conseguenza dello sviluppo e non come premessa. Chiaro che alla base socialista questa impostazione non andasse a genio; il premio nobel per la letteratura 2010, Vargas Llosa, fu molto duro in campagna elettorale. Ma quel presidente idealista non esiste più, è diventato ben presto pragmatico per far sì che le aziende estrattive ed i dollari americani affluissero. E’ passato da Chávez a Lula, compiendo una virata verso il centro che, almeno finché dura la fase di sviluppo economico sostenuta dal buon prezzo delle produzioni minerarie e dal boom del mattone, gli dà certamente ragione. La sinistra parlamentare lo ha sostanzialmente abbandonato e le imminenti elezioni regionali del 2014 costituiscono per Humala un possibile ostacolo.
L’ECONOMIA PERUVIANA, “ESTRELLA FULGORANTE” – Il Perù parte quindi da prospettive e fondamenta diverse rispetto agli altri stati dell’ALBA, l’alleanza bolivariana. E’ passato da un PIL di 53 miliardi di dollari del 2000 ai 145 del 2010, ed ha fatto registrare tassi di crescita superiori al 6% anche il 2011 ed il 2012. E propone un modello economico inclusivo, in cui c’è spazio sia per le multinazionali (soprattutto nordamericane) che per le piccole e medie imprese locali. Il settore energetico, quello minerario e l’agroindustria tirano la volata al turismo, in grande crescita e apportatore di valuta pregiata. E’ il secondo produttore mondiale di rame e vanta fiumi navigabili per oltre 14.000 km.
L’ALLEANZA DEL PACIFICO – Il solco più profondo con gli altri Stati dell’area socialista è quello in politica estera. Il Perù si è sostanzialmente disinteressato all’area continentale, chiusa dall’orografia e resa impraticabile da troppi regimi ravvicinati. Il Perù si sta creando una sponda importante con l’Alleanza del Pacifico, organizzazione fondata nel giugno 2012 con Messico, Colombia e Cile. A nessuno di questi Stati sfugge l’importanza strategica dello sguardo ad est, verso la Cina e le “tigri asiatiche”. I quattro hanno deciso, nel vertice di un anno fa a Cali, l’abolizione dei reciproci dazi, la condivisione di talune sedi diplomatiche e la creazione di un fondo comune di cooperazione.
Ed il successo della strategicità dell’operazione è riconosciuto dal parterre de roi di Stati accreditati come osservatori; addirittura, Francia, Australia e Spagna, tra gli altri. L’Alleanza Pacifica non è un doppione del Mercosur (bloccato dalle potenze egemoni, Brasile ed Argentina, che praticano misure protezionistiche) ma lo surclassa per dinamicità ed interesse. Chi ne fa parte vuole lo sviluppo economico ed è, convintamente, riconosciuto dagli altri come sostenitore del regime di mercato. Le grandi potenze sanno cosa aspettarsi in caso di investimenti e presenza sul territorio; chiunque sia al potere nelle quattro potenze fondatrici, lo scopo dell’alleanza non cambierà.
In questo modo il Perù evidenzia la spaccatura che troviamo oggi in America Latina, tra chavisti e non. Che il Perù sia sulla strada giusta è dimostrato anche dal favore con cui Obama guarda allo sviluppo dell’asse pacifico; nel celebre “discorso di Canberra”, davanti al Parlamento australiano, il presidente ha messo in luce gli interessi strategici, unilaterali e multilaterali, della sfida. Come dire, gli Stati Uniti ci sono. Riuscirà l’alleanza indio – latina a trovare il giusto punto di equilibrio con gli altri paesi del continente e con gli yanquis?
Andrea Martire