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La speranza del Sudan

Il successo del referendum sudanese, che porterà alla secessione del Sud Sudan da Khartoum, è il primo tentativo di ridefinire un confine dell’epoca coloniale attraverso il voto popolare. Il referendum in Sud Sudan è stato un evento storico infatti. In un paese grande quasi quanto l’Europa occidentale, ci sono volute due guerre civili e milioni di morti per giungere alla conclusione che il popolo del Sud Sudan poteva da solo determinare il suo destino nazionale

IL SUDAN VERSO L’INDIPENDENZA – Si chiamerà Sud Sudan il neo-stato africano che ha visto la luce dopo che il referendum del 9 gennaio scorso ha decretato la cessazione definitiva della lotta per l'indipendenza dal Sudan. Nonostante la grande tensione nel paese, dopo l'annuncio dei risultati ufficiali, il governo semi-autonomo di Juba ha iniziato i preparativi per la dichiarazione di indipendenza che verrà proclamata il 9 luglio 2011. La vittoria dei secessionisti ha portato all’indipendenza e alla conclusione del conflitto ventennale tra il nord musulmano e il sud cristiano e animista. Sono circa quattro milioni gli sfollati e due milioni i morti nella guerra civile che ha insanguinato il paese tra il 1983 e il 2005. Nonostante il referendum si sia svolto pacificamente e in modalità che hanno garantito credibilità e validità, il sangue non ha mancato di scorrere laddove era più prevedibile: lungo la martoriata e contesa frontiera tra il nord e il sud del Paese. Le violenze hanno accompagnato lo scrutinio in varie zone, soprattutto nel distretto di Abyei, una regione petrolifera a statuto autonomo che ancora non è chiaro se verrà o meno annessa al Sud Sudan. Ma la popolazione ha sentito tutta l'importanza di questo momento ritenuto storico, tanto che oltre 120 mila sudanesi originari del sud ma residenti nella cosiddetta "black belt" attorno a Khartoum, nelle ultime settimane sono tornati nelle terre d'origine per votare.

QUALCOSA E' CAMBIATO – La conferma della regolarità delle procedure elettorali e delle operazioni di spoglio sono stati accolti con entusiasmo anche dalla comunità internazionale. In primis dagli Stati Uniti che hanno subito chiesto al Nord di mantenere fede all'annuncio di riconoscere il risultato del voto, forti dell'accordo della rimozione del Sudan dalla lista nera degli Stati sponsor del terrorismo. L’affluenza ha superato il 60 per cento, quorum necessario perché il referendum fosse valido. L’entusiasmo e la voglia di cambiamento veniva assaporato nei canti e nei balli improvvisati lungo le code per andare a votare, mentre chi già lo aveva fatto mostrava soddisfatto l’indice macchiato d’inchiostro. La dichiarazione ufficiale di indipendenza è arrivata dopo un vertice dell'Splm (Sudan Peoples Liberation Movement), il partito che è alla guida del Sud. Il presidente sudanese Omar al Bashir si era detto sin da subito disposto a rispettare il risultato del referendum e a costruire uno stato stabile, ma non certo disposto a rinunciare alle risorse petrolifere del sud, e ha manifestato anche il timore che ciò incoraggiasse i movimenti separatisti in altre aree del Sudan, come il Darfur. Sicuramente dopo i risultati del voto, qualcosa è cambiato. Dopo mesi e mesi di assurde proposte e fantasiose teorie per mantenere lo status quo, Khartoum comincia a muoversi verso una nuova stagione di rapporti bilaterali con il Sud Sudan. Resta la questione della frontiera, una frontiera etnica ma anche religiosa, sulla quale passano anche interessi economici: basta dare un'occhiata ad una mappa satellitare per mettere a confronto le terre verdi della parte meridionale, già ricca di petrolio, e il brullo nord per capire perché Khartoum si opponesse alla secessione. Mancava prima del referendum e manca ancor oggi un serio accordo sulla demarcazione dei confini, sulla divisione dei proventi del petrolio e sulle acqua del Nilo. La tensione nel paese è tuttora palpabile.

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IL PETROLIO CHE MINACCIA IL SUD SUDAN – L’economia del Sud dipende in buona parte dal petrolio. Nella regione dove operano molte compagnie straniere, si estrae l’85% del greggio. Secondo l'accordo del 2005, il Nord dovrebbe ricevere metà degli introiti derivanti dal greggio estratto nel Sud, che non ha sbocchi sul mare e dipende completamente dalle infrastrutture del settentrione e dal porto sul Mar Rosso per esportare il prodotto raffinato all'estero. Ma Juba non ha alcuna intenzione di continuare a cedere le ricchezze del proprio territorio e chiede che le regole siano ridefinite. Entrambe le parti, per sostenere le rispettive economie, hanno interesse a mantenere la cooperazione in materia di greggio, principale fonte di guadagno dello Stato, ma sulle condizioni c'è una netta spaccatura e il Sud ha le idee chiare su come gestire le proprie risorse energetiche. Se scoprisse nuove riserve petrolifere, sarebbe pronto a costruire altri oleodotti e a sviluppare una più ampia rete di trasporti verso i porti del Kenya, di Gibuti e della Repubblica democratica del Congo. Dichiarazione che ha irritato Khartoum e che rischia di provocare nuove violenze. Salva Kiir Mayardit, il Presidente del Sud Sudan, ha manifestato non pochi timori parlando di «ostacoli post-referendum che segnano l'inizio di una nuova lotta». Il timore che non parlasse solo in senso figurato dovrebbe far riflettere sul futuro che attende questo turbolento e instabile paese che si appresta ad affrontare l'indipendenza attesa cinque anni con un fardello di problematiche che schiaccerebbe anche il più navigato e stabile stato occidentale. E il timore è reale visto che non si arrestano le violenze e gli scontri per il petrolio all'interno di un Paese in cui le condizioni igienico sanitarie sono pessime e il tasso di mortalità è tra i più alti del mondo.

CARTA RELIGIOSA – Il leader ghaneano Nkrumah mise in guardia contro quello che definiva “pachistanismo”, cioè la separazione su basi religiose. Ed ora il pachistanismo è arrivato in Sudan, dove i sudanesi del sud hanno giocato la carta religiosa, accusando quelli del nord d’intolleranza. Ma al suo interno anche il Sud Sudan è multietnico. Passata l’euforia per l’indipendenza si teme che alcuni gruppi possano provare risentimento per la supremazia dei dinka, l’etnia dominante. Una cosa è certa: con la secessione il Nord diverrà un paese integralmente islamico, mettendo definitivamente da parte quelle misure elastiche di applicazione della legge coranica, previste dall’accordo di pace del 2005, per favorire una pacifica coesistenza delle due popolazioni.

 

Adele Fuccio

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