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Israele vs Hamas, la dimensione strategico-operativa

Ancora una volta si combatte sulla striscia di Gaza, e il confronto fra Israele e Hamas si insaprisce ogni giorno di più.  In 5 domande e 5 risposte approfondiamo la dimensione operativa nella quale i due contendenti si affrontano, e quali siano i loro punti di forza e di debolezza nei confronti dell’avversario.

PREMESSA – Precisiamo che le considerazioni di cui sotto riguardano esclusivamente il piano operazionale. L’obiettivo dei 5 punti è spiegare se e quanto siano motivate le scelte principali che i due schieramenti operano nella conduzione delle ostilitĂ  sul piano strategico, senza alcun altro giudizio di valore su necessitĂ /opportunitĂ /giustizia degli interventi delle due parti.

Al fine di non creare equivoci, è bene specificare che la quantità di contenuto riguardante la dimensione strategica israeliana appare più consistente di quella di Hamas. Questo è dovuto alle dimensioni e complessità dell’apparato militare israeliano, che opera con Forze Armate convenzionali e dotate di un’ampia varietà di assetti e soluzioni tattiche, contro un soggetto asimmetrico (un movimento terroristico) con assetti limitati in numero e complessità, ed il cui operato si svolge in maniera più marcata in ambiti diversi da quello strettamente militare (ideologico e politico in primis).

1. Quanto sono efficaci i razzi palestinesi?

Dal punto di vista bellico, non molto. Le testate dei razzi palestinesi sono limitate per dimensioni e capacità di penetrazione (appartenenti prevalentemente alle famiglie Qassam e Grad). Questo li renderebbe insignificanti in un contesto di conflitto convenzionale, ad esempio contro fortificazioni militari o truppe meccanizzate. Non hanno inoltre nessun sistema di guida che li renda utili contro un obiettivo predefinito. Tuttavia, Hamas non rivolge i propri attacchi di saturazione contro le truppe israeliane, ma esclusivamente contro i centri abitati, soprattutto quelli di maggior importanza. Dirigere pochi razzi verso Tel Aviv non può certo mettere in ginocchio la città, ma poter raggiungere e terrorizzare il cuore di Israele è un risultato già pagante. I centri abitati come Ashkelon, Ashdod, Be’er Sheva e i loro dintorni, che si trovano vicine al confine con la Striscia di Gaza, hanno minor significato simbolico ma vengono più duramente colpiti, trovandosi a tiro anche dei razzi con minor gittata. In proporzione al volume degli attacchi (grazie anche alle difese attive e passive israeliane) i danni provocati dai razzi sono limitati ed il numero di vittime tra morti e feriti in questi anni relativamente basso (in termini prettamente strategici, sia chiaro), a fronte di un attacco di saturazione in aree abitate.

Hamas dirige le proprie armi contro i civili in maniera deliberata, e le trasforma in armi psicologiche il cui impatto sulla popolazione israeliana è ben superiore a quello materiale, e di conseguenza aumenta anche la minaccia percepita. Sul piano strategico, la scelta di usare l’attacco contro la popolazione civile come mezzo di pressione diretta e indiretta sugli organi di governo israeliani si è rivelata poco efficace – o quantomeno discutibile in termini di utilitĂ  militare – ed ha per contro cementato la coesione dello Stato di Israele (tramite fattori che vanno dalla paura della minaccia al desiderio di riscatto), che ne ha tratto legittimitĂ  interna per la risposta armata.

Razzi Qassam pronti al lancio
Razzi Qassam pronti al lancio

2. Sono davvero chirurgici i raid israeliani?

Dal punto di vista militare, Sì. Israele usa da decenni armamento guidato per la conduzione di attacchi di precisione. Gli armamenti guidati hanno sopperito a due necessità al tempo stesso: da una parte l’armamento di precisione permette di colpire con un singolo raid obiettivi difficili come piazzole di lancio in ambiente urbano, laboratori sotterranei di armi o depositi protetti (ad esempio, tramite le prese d’aria) oppure obiettivi in movimento. Dall’altra, le armi guidate hanno un rilevante peso politico, perché permettono di portare a termine missioni complesse con effetti collaterali accettabili di fronte alle opinioni pubbliche o alla comunità internazionale.

Per meglio comprendere queste affermazioni si tenga presente che, prima della diffusione delle armi guidate, la distruzione di un obiettivo militare richiedeva numerose sortite e molte tonnellate di armamento di caduta che radevano al suolo vaste aree intorno al bersaglio nel tentativo di centrarlo, con un gran numero di vittime civili per gli obiettivi nei centri abitati. L’impossibilità di operare diversamente rendeva tali operazioni più accettabili in caso di guerra, perché non esistevano altri modi di condurre una campagna aerea.

Non va però dimenticato che anche gli attacchi odierni, per quanto precisi, sono pur sempre operazioni militari, e come tali comportano perdite tra i civili quando condotti in teatri operativi dove sia presente la popolazione. Questo è particolarmente vero a Gaza, dove l’altissima densità della popolazione palestinese della Striscia la rende un ambiente nel quale anche l’attacco più preciso causa danni notevoli alle costruzioni non direttamente coinvolte dall’attacco e morti civili. Dal punto di vista statistico, a fronte della quantità di sortite dell’aeronautica israeliana (oltre 800 al momento in cui scriviamo, dato ovviamente in aumento) le perdite sarebbero da considerarsi limitate, ma in particolare l’evidente impossibilità di distinguere in un contesto così densamente popolato come Gaza obiettivi civili e militari rende assolutamente drammatico il bilancio delle operazioni in corso.

A suo modo, inoltre, Hamas cerca di sfruttare il tema della densità, mimetizzando le piazzole di lancio per i razzi tra le abitazioni civili, usando fabbricati residenziali come depositi e facendosi scudo – direttamente e indirettamente – della popolazione per proteggere i propri combattenti e i propri leader.

Israele, dal canto suo, non lesina gli attacchi aerei ed ha spesso subito pressioni forti da parte della comunità internazionale per limitare i bombardamenti e non eccedere nell’uso della forza. In effetti, le IDF (Israeli Defence Forces) prediligono il mezzo aereo perché, in alternativa, dovrebbero ricorrere ad una bonifica casa per casa con truppe speciali, uccidere i leader tramite spie infiltrate o altre tecniche a basso profilo che confliggono con la necessità di risposta rapida, forte e visibile che sortisca l’effetto di scoraggiare ulteriori iniziative offensive del nemico, ma anche di dimostrare al proprio Paese che si sta operando con la massima decisione.

Una considerazione parimenti valida, sul piano militare, è che opzioni diverse da quella aerea, soprattutto nella fasi iniziali della battaglia, potrebbero causare perdite significative nelle file dell’esercito israeliano. Le IDF – come logico – preferiscono infliggere un numero maggiore di vittime ai palestinesi piuttosto che aumentare le proprie.

Chiaramente, la scelta deliberata di operare massicciamente con il mezzo aereo in un simile contesto, che per sua natura prevede ingenti perdite umane, anche e soprattutto civili,  provoca valutazioni molto dure da parte della comunità internazionale, inclusi i Paesi occidentali amici, che hanno condannato più volte Israele per le sue scelte operative.

Un drone IAI Eitan (Heron) TP in volo
Un drone IAI Eitan (Heron) TP in volo

3. Come vengono identificati i bersagli al suolo?

La guerra a Gaza non si combatte soltanto con le bombe ma, prima di tutto, con le informazioni. Per localizzare le sorgenti di minaccia al territorio israeliano (ovvero, i depositi di munizioni, i tunnel e i leader di Hamas) le forze armate israeliane lavorano costantemente sul territorio sia in tempo di pace che di guerra. Il lavoro più paziente si svolge attraverso l’HUMINT (HUMan INTelligence). Lo Shabak (Shin Bet) infiltra a Gaza diverse cellule operative con il compito di effettuare, nel lungo periodo, ricognizioni complete ed accurate, raccogliere informazioni, corrompere affiliati di Hamas. Molti operativi parlano arabo correntemente, e sono in grado di camuffarsi tra la popolazione civile, alcune volte anche infiltrarsi nelle organizzazioni islamiste. Una volta selezionato un bersaglio, questo viene ulteriormente seguito ed intercettato da drones, satelliti o altri assetti ISR (Intelligence, Surveillance, Reconnaissance) che coprono lo spettro di missioni SIGINT (SIGnal INTelligence) e COMINT (COMmunication INTelligence) e tengono traccia della localizzazione. Tocca quindi agli F-15I ed F-16I dell’aeronautica effettuare il raid vero e proprio, sganciando l’armamento di precisione (a guida GPS, laser, infrarossa o elettro-ottica), talvolta coadiuvati ulteriormente da terra.

Diversa e molto più semplice l’attività di scelta del bersaglio da parte di Hamas, che punta direttamente i propri ordigni con traiettoria balistica verso i centri abitati. Gli ordigni non dispongono di guida alcuna, e l’attività di pianificazione degli attacchi non richiede preparazione specifica. Gli operativi di Hamas tendono però a calcolare la traiettoria, perché il numero maggiore di razzi raggiunga zone densamente popolate o che ospitino attività economiche importanti.

Sezione di fuoco di Iron Dome in batteria nei pressi di Ashkelon
Sezione di fuoco di Iron Dome in batteria nei pressi di Ashkelo

4. Iron Dome è davvero efficace?

In termini assoluti sì, strategicamente no. L’aumento della capacità di Hamas di colpire il territorio israeliano anche sulle lunghe distanze è stato contrastato con batterie di missili C-RAM (Counter Rocket, Artillery, Mortar) del sistema Iron Dome. Il sistema è stato progettato in seguito al secondo conflitto israelo-libanese (2006) e si compone di un radar di scoperta e inseguimento, un centro di comando e controllo e un numero variabile (di solito 4) di lanciatori multipli per missili Tamir. Iron Dome ha intercettato, nel corso dell’attuale operazione Protective Edge, una buona percentuale di ordigni lanciati contro le aree popolate del territorio israeliano. Questo rappresenta un successo perché frustra il tentativo di Hamas di tenere sotto scacco con le sole minacce lo Stato di Israele. Il sistema non è però esente da critiche, in parte giustificate. A fronte dell’impossibilità materiale (e tecnologica) di intercettare tutti i razzi in volo, i costi di Iron Dome sono proibitivi, anche se parzialmente compensati, nella fase di sviluppo, da consistenti fondi statunitensi. In breve, la sicurezza che Iron Dome garantisce alla popolazione israeliana è comunque parziale e a costi altissimi. I dati sui costi di ciascun lancio e sulla percentuale reale di intercettazioni sono ovviamente classificati (nella maggior parte dei casi si tratta di comunicati ufficiali con informazioni generiche oppure di stime) ma è certo che i costi delle cinque batterie operative sono enormemente maggiori delle risorse economiche necessarie ad Hamas per armare e lanciare ordigni rudimentali del valore di poche centinaia di dollari.

Ancora una volta dobbiamo fare un doveroso distinguo tra piano militare ed altri livelli di analisi. Dal punto di vista prettamente strategico, la proporzione tra il danno arrecato dai razzi e la contromisura adottata è, insomma, squilibrata, drenando risorse economiche eccessive rispetto all’entità della minaccia.

Ovviamente il valore di principio, ma anche politico, di salvaguardare quante più vite umane possibile a qualunque costo rende l’utilizzo di strumenti come Iron Dome accettabile ed incluso nei costi sociali del conflitto. Ma è altresì vero che se la campagna di Hamas si prolungasse oltre 2-3 settimane mantenendo una buona cadenza di tiro (improbabile considerando le dure risposte israeliane agli attacchi, ma non impossibile) alimentare i lanciatori di Iron Dome e ripianare le scorte diventerebbe un onere talmente gravoso da far traballare il bilancio della difesa di Gerusalemme. Di conseguenza, il successo o l’insuccesso di una campagna di lanci contro Israele potrebbe non misurarsi soltanto nel breve termine con l’impatto diretto di Qassam e Grad contro il suo territorio.

Elementi della brigata Kfir si addestrano al combattimento urbano
Elementi della brigata Kfir si addestrano al combattimento urbano (Image credit: IDF)

5. Quali caratteristiche presenta un confronto a terra tra i due schieramenti?

Se Israele intraprendesse una campagna terrestre contro Hamas il confronto si risolverebbe con ogni probabilità con la vittoria delle IDF, che infliggerebbero ancora più perdite al nemico dei raid aerei, riducendone inoltre la presenza sul territorio. La condotta delle operazioni sarebbe tuttavia non semplice, per via dell’ambiente operativo peculiare rappresentato dalla Striscia di Gaza. Alcune misure ricadono ancora all’interno dei canoni classici delle operazioni militari terrestri, ad esempio il controllo e l’interdizione delle vie di comunicazione e dei punti di accesso principali o la distruzione dei centri di comando e dei depositi del nemico. A tale scopo, le divisioni meccanizzate e corazzate dell’esercito circonderebbero su tre lati Gaza come in una morsa (probabilmente la 162^ e altre due divisioni di prima linea provenienti dal fronte settentrionale, con il coinvolgimento della locale 366^ divisione corazzata), per coprire e spalleggiare l’intervento delle brigate specializzate o abituate al combattimento in area urbana (probabilmente le brigate Givati e Golani, la 35^ paracadutisti, uno o più battaglioni della brigata Kfir e le forze speciali). Infatti, la maggior parte delle azioni di rispetto si svolgerebbe in centri altamente abitati con tecniche di CQC (Close Quarter Combat) da parte israeliana cui si contrapporrebbe la guerriglia urbana di Hamas.

Il partito/gruppo combattente palestinese può mimetizzarsi tra la popolazione, usare abitazioni civili come nascondigli, sfruttare ripari protetti e tendere agguati. In un contesto in cui le forze si fronteggiano a distanza ravvicinata, il vantaggio tecnologico che gli Israeliani possono sfruttare appieno nelle operazioni “stand-alone” viene in parte meno ed entrano invece in gioco fattori più tradizionali e meno prevedibili, quali la qualità dei combattenti e la determinazione degli stessi, la conoscenza approfondita del territorio, e la differenza tra regole di ingaggio. Questo accresce le possibilità di Hamas di colpire duro e da vicino le forze israeliane, anche se subendo per contro l’iniziativa delle IDF e probabilmente rischiando il totale annichilimento. Durante l’Operazione Cast Lead, nel 2009, la superiorità israeliana fu schiacciante, e il fronte terrestre di Protective Edge non sembra presentare grossi elementi di novità rispetto a cinque anni fa.

Discorso a parte meriterebbe l’individuazione di rifugi sotterranei e tunnel, che sono da sempre il mezzo preferito – e piĂą efficace – di Hamas di rifornirsi di armi e munizioni e ripianare le perdite materiali subite. Difficili da individuare e da neutralizzare (spesso corrono per chilometri e non basta occluderne un punto per renderli inservibili), i cunicoli vengono di solito attaccati da forze speciali o attraverso attacchi aerei con specifici ordigni (penetrators, bunker busters). L’operazione di terra ne consentirebbe una piĂą semplice individuazione rispetto agli approcci “stand-alone” ed alla sola ricognizione e raccolta di intelligence.

Passando dal piano tattico a quello strategico, se è indubbio che un’operazione come quella prospettata vedrebbe la schiacciante superiorità militare israeliana aver ragione delle pur determinate forze di Hamas, la sola operazione militare rischia di essere un successo momentaneo e non sufficiente ad estirpare le radici profonde del conflitto tra il gruppo palestinese e lo Stato ebraico, che si riproporrebbe ciclicamente. I termini nei quali la questione andrebbe posta sono ben più ampi delle operazioni militari di cui abbiamo tentato di descrivere le dinamiche principali (tenendoci ad un piano di analisi specifico) e che rappresentano comunque il fallimento di iniziative più integrate che vadano oltre il mero piano della sicurezza.

Marco Giulio Barone

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Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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