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Viaggio nel cuore del Kosovo indipendente

Il “Caffè” vi porta nel cuore del Kosovo, regione tormentata dell’ex Jugoslavia che rappresenta un caso del tutto peculiare e interessante per chi studia e si interessa di diritto internazionale. Una regione piccola ma martoriata da un lungo conflitto etnico tra serbi e albanesi, culminato nella missione NATO del 1999 che ha poi portato alla nascita, seppur lenta e faticosa, di un nuovo Stato indipendente. Ecco in esclusiva il reportage di una nostra collaboratrice, direttamente dal cuore dei Balcani: oggi pubblichiamo la prima parte

 

Prima parte – Leggi qui la II parte

 

I PERCHÉ DEL KOSOVO – Dubrovnik, Croazia. Dopo una mattinata in spiaggia tra ciottoli bianchi e onde turchesi salgo sull’autobus che mi porterà a Pristina, per una settimana fitta di appuntamenti, conferenze e briefing alla scoperta del nuovo Kosovo.

 

Faccio parte di una delegazione dello Human Rights Centre dell’Università di Essex, e a riceverci ci saranno i principali attori – kosovari  ed internazionali – che stanno cercando di dare forma e direzione al neonato Stato balcanico. Tra questi, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la missione di rule of law EULEX, che opera sotto l’egida dell’Unione Europea, la Corte Costituzionale del Kosovo e diverse organizzazioni non governative (ONG).

 

Il Kosovo è una realtà giuridica e politica incredibilmente stimolante. In una manciata di chilometri quadrati, pone lo studioso di diritto internazionale di fronte ad alcune grandi sfide del nostro tempo, dai meccanismi giuridici di tutela delle minoranze etniche e religiose alle grandi riforme istituzionali alla spinosa transizione tra peacekeeping e peacebuilding.

 

Immaginando tutto questo, lascio la splendida Dubrovnik con un misto di tristezza ed entusiasmo. Arrivo a Pristina quattordici ore dopo, e con tre diversi visti sul passaporto – Croazia, Montenegro e Kosovo. E’ l’alba, e la città è deserta e silenziosa. Qua e là si intravedono edifici semidistrutti, macchie grigie che parlano di un passato che non c’è più. Palazzi crollati e mai ricostruiti si mescolano a caseggiati nuovissimi, dall’intonaco fresco e colorato, dando vita ad un panorama che in fondo mette speranza.

 

E’ la ricostruzione che avanza, dieci anni dopo la guerra e sei anni dopo le rivolte del 17 Marzo 2004, il più grave episodio di violenza tra serbi ed albanesi dalla fine del conflitto.

 

LA FRATTURA E IL SILENZIO – Ovvero la storia comune di serbi e albanesi. Dal 1914 ad oggi, i popoli di questa regione hanno vissuto una tormentata storia di scintille ed esplosioni, che si saldano tra loro dando origine alla cosiddetta “questione balcanica”. Se dovessi spiegare in una sola frase cos’è l’ex Yugoslavia, non esiterei a definirla un mosaico di etnie e culture che stentano a trovare un equilibrio. In quest’ottica di continua destabilizzazione, il Kosovo rappresenta solo il tassello più recente. La sua storia è l’ennesimo episodio di una storia più lunga e più cruenta, segnata da aspri conflitti e da ferite mai rimarginate.

 

Elencare gli episodi bellici susseguitisi in questa regione a partire dai fatti del 28 giugno 1914 (uccisione di Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria) è un’impresa ardua, che lascio agli storici di professione.

 

Mi limiterò ad elencare i conflitti più recenti, quelli che sono vivi nei nostri ricordi, quelli che hanno popolato giornali e telegiornali nel corso degli anni ’90: guerra d’indipendenza slovena (1991), guerra in Croazia (1991-1995), guerra in Bosnia-Herzegovina (1992-1995), guerra in Kosovo e caduta di Milosevic (1999).

 

L’intreccio di delusioni, vendette, malcontento e rancore rende quasi impossibile scrivere una storia dei Balcani che sia “oggettiva”. E’ proprio questa faccenda dell’oggettività che mi tormenta, fin da subito, come un ronzio costante nella mia mente, un’eco che torna a farsi sentire ad ogni angolo durante le mie passeggiate e ad ogni meeting con le istituzioni.

 

Giunta in Kosovo, mi chiedo: “A chi appartiene la Storia di questo luogo?”

 

Se è vero che l’identità kosovara è albanese e musulmana, è però ugualmente vero che esistono diverse minoranze etnico-religiose, tanto che si potrebbe parlare del Kosovo come di uno “stato di minoranze”. A maggior ragione se consideriamo che in alcune parti del paese le minoranze diventano maggioranza. Lo si capisce benissimo quando si va a Mitrovica, enclave serba nel nord del paese. Lì non esistono “kosovari”, ma solo “serbi del Kosovo”, ovvero cristiani ortodossi politicamente rivolti verso Belgrado.

 

A Mitrovica non sventolano le bandiere albanesi e statunitensi che invece affollano le piazze di Pristina e Prizren. Si respira un’aria tesa, di sfiducia verso le istituzioni kosovare, bollate come “estranee”. Per fare un esempio legato all’ordinaria amministrazione, basti pensare che gli stipendi di molti insegnanti e operatori scolastici serbi di questa regione vengono ancora pagati dal Ministero dell’Istruzione serbo.

 

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I CASI DI GRAÈANICA E PRIZREN – Una situazione simile si trova anche a Graèanica, una delle maggiori comunità serbe del Kosovo centrale, sviluppatasi interamente attorno ad un imponente e suggestivo monastero ortodosso. Qui un giovane serbo che lavora presso il monastero non esita a rispondere alla mia domanda: “La Storia di questo paese è nostra, siamo stati qui per centinaia di anni”. Poi, indicando gli affreschi che rappresentano il re serbo Stefan Milutin e sua moglie Simonida, mi dice: “Questo luogo di culto, con le sue cupole, le sue decorazioni e il suo profondo significato religioso fu voluto da re Stefan nel 1321”, come a sottolineare che la presenza serba affonda le sue radici nei secoli passati, e non ha nulla a che vedere con gli eventi tumultuosi della Yugoslavia post-Tito.

 

Da quando, dopo la guerra del 1999, il Vescovo di Raška e Prizren ha deciso di trasferire la sua sede a Graèanica, al simbolismo religioso sembra essersi aggiunta anche una valenza politica, tanto da rendere il quieto e silenzioso monastero un vero e proprio centro politico per i serbi del Kosovo.

 

La frattura tra serbi e albanesi è dolorosa, come un dialogo interrotto e mai ripreso, come un silenzio pesantissimo popolato di fantasmi. E ciò che fa paura è che i fantasmi non sono i famigerati criminali di guerra che affollano le pagine dei quotidiani, bensì, molto più semplicemente, hanno nomi e volti di ex colleghi o ex vicini di casa. Durante le rivolte del marzo 2004, molte abitazioni serbe sono state saccheggiate, bruciate, rase al suolo. Lo stesso è accaduto a diversi luoghi di culto ortodossi, perfino nella bella Prizren, che vanta secoli di tolleranza e multiculturalismo ed è riconosciuta da tutti come la culla artistica e culturale del Kosovo. Non sono stati risparmiati neppure i cimiteri, dove le zolle di terra sono state rivoltate, le lapidi spaccate a metà e le tombe sono ormai coperte di erba, polvere ed indifferenza.

 

“Dov’erano i peacekeepers di KFOR mentre accadeva tutto questo scempio?” ci chiede la nostra guida, una signora di mezz’età, capelli scuri e sguardo fiero. “Qual è lo scopo di avere tutti questi soldati stranieri per le strade, in tutto il paese, se poi non ci proteggono?”

 

KFOR, la missione che opera sotto l’ombrello NATO, ha il mandato di proteggere tutti: albanesi, serbi, rom, ashkali, turchi (per nominare solo alcuni dei gruppi etnici presenti in Kosovo). Eppure, quel 17 marzo 2004 i soldati di KFOR sono rimasti a guardare, e hanno lasciato che la grande chiesa ortodossa di Prizren venisse distrutta.

 

Qualcuno fa notare con sconforto che non sono intervenuti neppure i peacekeepers di nazionalità greca, che con i serbi del Kosovo condividono la fede cristiana di rito ortodosso. Resto per un po’ nella chiesa, e vago tra le navate fissando le pareti bianchissime e i legni scuri dell’altare. Su quelle pareti, una volta, erano dipinte decine di icone sacre, secondo la tradizione bizantina. Oggi invece regnano indisturbati il bianco e il vuoto.

 

Siamo giunti all’ultimo atto? E’ questo il triste crepuscolo della Prizren tollerante? Forse no. Forse si tratta solo di un vuoto temporaneo, di un foglio bianco dal quale ripartire. O almeno così mi racconta un monaco ortodosso che incontro nel cortile, e che ci tiene ad informarmi che la comunità internazionale ha stanziato dei fondi per completare la ricostruzione della chiesa. “Gli aggressori venivano dalle campagne. Nessuno a Prizren odia il proprio vicino” – commenta infine a bassa voce, allontanandosi lungo i viali alberati che dalla chiesa ortodossa conducono alla moschea, e di lì all’hammam ottomano. In quelle poche strade si cela il segreto dell’antico Kosovo, pulsante crocevia di genti e culture.

 

(continua)

 

Anna Bulzomi

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