Sette caffè per sette Nazionali: a un mese dalla fine dei mondiali, riproponiamo il nostro bilancio, e l’e-book con cui abbiamo raccontato le storie di tutti i Paesi e le Nazionali protagoniste in Basile
1. GERMANIA: hanno vinto i più forti, punto. Un’organizzazione perfetta, un po’ di fortuna che non guasta mai in finale, quando all’Argentina viene la paura di vincere sotto porta, grandi giocatori (Neuer, Schweinsteiger, Müller su tutti) e soprattutto un grande allenatore. Quasi mai sotto i riflettori, Löw riesce a cambiare in corsa un paio di volte la squadra nel Mondiale (in particolare dopo le fragilità difensive viste contro l’Algeria), passa alla storia con il 7-1 ad un Brasile suicida, e raccoglie i frutti di un lavoro di otto anni, con una Nazionale che sembra una squadra di club, tanto è coordinata e capace di suonare uno spartito che sa a memoria. Merito della programmazione del C.t., che insegna anche a noi Italiani che il Mondiale è l’evento in cui capitalizzare il lavoro svolto, non quello per sperimentare. Caffè 100% arabica.
2. ARGENTINA: per il bel calcio, guardare altrove. L’Argentina non ha quasi mai entusiasmato fino alla finale, ma si è rivelata squadra organizzata, coesa, pronta al sacrificio, con un baricentro basso ma un’ottima difesa, molto forte soprattutto quando la palla ce l’hanno gli altri. Una squadra con due leader, e nessuno dei due si chiama Messi. Il primo è sicuramente Mascherano, che ha incarnato lo spirito di questa squadra. L’altro è Di Maria (quanto si è sentita, la sua assenza nelle ultime due), autore di un grande Mondiale e capace di creare il collegamento tra la squadra e il suo fenomeno, quel Messi che (come da un anno a questa parte, tra l’altro), gioca in un fazzoletto, per cui se gli arriva la palla può essere decisivo, ma certo non se la va a prendere, né trascina i compagni all’impresa. È il paradosso del giocatore più forte del mondo, che è quello che corre meno tra tutti quelli che hanno giocato la finale. Già, la finale, la gara forse giocata meglio dalla Nazionale argentina (perché no, non era solo la sfida tra la squadra più forte e il giocatore più forte), ma che ha sbagliato almeno quattro palle gol clamorose davanti alla porta, con tanti saluti da casa da parte di un certo Carlitos Tevez: chissà cosa ha provato, a guardare quella squadra perdere la finale perché incapace di concretizzare, come se mancasse quel tot di caffeina in più. Caffè decaffeinato.
3. OLANDA: squadra quadrata e concreta, che un po’ rinnega nel suo modo di giocare la sua anima storica, quella del calcio totale anni ’70. Ma contano i risultati, alla fine, e il podio è una mezza sorpresa: la squadra è andata probabilmente anche oltre le sue potenzialità grazie al trio là davanti (Sneijder e Robben più di Van Persie, autore di uno dei due gol più belli del Mondiale, e poi di poco altro) e al guru in panchina, quel Van Gaal che quando allena giovani da plasmare ottiene sempre grandi risultati. Cose che rimarranno: il gioco psicologico del C.T. (con botta di fortuna annessa, altrimenti sarebbe stato sbeffeggiato dal mondo intero) nel sostituire il portiere a un minuto dalla fine contro la Costa Rica, facendo credere che entrasse il para-rigori Krul (che in carriera ne aveva parati solo il 10% circa). Gioco che gli si è poi ritorto contro, quando la stessa sostituzione non è stata fatta (perché, a quel punto?) in semifinale contro l’Argentina, con il portiere titolare Cillesen che si buttava ai rigori a peso morto, come un uomo pronto al patibolo. Caffè intenso.
4. BRASILE: la prima lezione che devono imparare in Brasile è che se vogliono vincere, devono smettere di voler organizzare i Mondiali in casa, perché la troppa pressione, in un Paese che vive di calcio, sembra distruggere i giocatori. Il football di Scolari è esclusivamente emozionale, non organizzato né equilibrato, fatto di folate, pressione sugli avversari e ripartenze fisiche. Un calcio così, alla dai-che-ce-la-facciamo, quando incontra l’organizzazione crolla. Del 7-1 con la Germania si parlerà ancora tra 50 anni, ma è un risultato non illogico, e per quanto clamorosamente inatteso è figlio del modo di giocare delle due squadre. E ribadisce inoltre come nel calcio la testa conti almeno come i piedi: perché prendere 4 gol in 10 minuti a quei livelli (ma anche più sotto) è la prova non solo di un suicidio tattico (e di una formazione sbagliata: l’assenza di Neymar poteva creare l’opportunità di una squadra più accorta in campo), ma di un vero e proprio crollo psicologico. E la seconda batosta, il 3-0 nella finalina contro l’Olanda ne è stata solo la naturale conseguenza. Caffè bruciato.
5. COSTA RICA: la sorpresa assoluta, ad un rigore dall’essere tra le prime 4 del mondo. Il C.t. Pinto diceva di ispirarsi scientificamente a Conte, e probabilmente molti juventini l’avrebbero preferito ad Allegri. Squadra tosta, di gran corsa, soprattutto con Gamboa e Diaz, i due esterni capaci di trasformarsi da terzinacci ad ali in pochi secondi. Grande aggressione all’avversario, pressing continuo, ed una difesa altissima e sincronizzata: Italia 11 volte in fuorigioco, Olanda 13. Il Brasile, per dire, se la sognava una difesa così. Caffè robusto.
6. SPAGNA: è l’anno delle abdicazioni, in terra iberica. Vince chi è più forte, dunque non per forza chi ha i piedi migliori, ma chi ha più testa e più fame. Alla Spagna la seconda e soprattutto la terza componente mancavano completamente. Una squadra cotta, con poca corsa, e clamorosamente con poche idee con la palla tra i piedi, nonostante la tecnica sopraffina di molti interpreti. Scrivevamo prima del Mondiale che il girone difficile era un bene per la Spagna, perché poteva svegliarli dall’effetto “pancia piena” che portava con sé il rischio di uscire addirittura al primo turno. Così è stato, con la beffa ulteriore del centravanti brasiliano naturalizzato Diego Costa: unica novità tra i titolari, decide di tradire il Brasile per la Spagna, giocando i mondiali in casa con una squadra che esce al primo turno, sazia per aver già vinto tutto (a differenza sua). E dire che il Brasile giocava con l’imbarazzante Fred centravanti: posto per lui nella Seleçao c’era eccome. Caffè annacquato.
7. ITALIA: tutti a parlare di ripartire da zero, vivai, stadi eccetera. Tutto vero, tutto giusto, ma poi se hai un allenatore che “fa fallire il suo progetto tecnico”, per dirla con le sue parole evitando di usarne di nostre, non si andrà mai lontano. Lasciando da parte il tema convocazioni (ma al di là di un Rossi che non stava bene, per Destro – a casa per Insigne, 3 gol nell’ultimo campionato – vale più o meno il discorso di Tevez sopra), dopo una buona prima gara (contro una squadra che si rivelerà poi forte soltanto per il suo blasone) in cui tutto il Paese parla di tiki-Italia (ricordate?), la nostra Nazionale entra in pieno suicidio tattico nelle due gare seguenti. Bello puntare sul possesso palla, ma se questo si estremizza e diviene una ideologia, con tanti centrocampisti che si pestano i piedi tra loro, con ali del 3-5-2 che in realtà sono terzini (Italia-Uruguay), giocando senza punte o quasi e mettendo a fare la prima punta chi da sempre gioca venendo dietro a prendersi palla (Italia-Costarica), ecco che il baricentro si abbassa, non ci sono riferimenti davanti, l’indice di pericolosità si avvicina allo zero, e quindi non si tira, e non si segna. Quando giochiamo con una prima punta vera (Immobile, Uruguay), dopo un tempo la abbandoniamo là da sola giocando con un 3-6-1. Aggiungiamoci una serie di cambi quantomeno sconclusionati (su tutti, l’ingresso contro l’Uruguay in 10 di Cassano, anziché Cerci, quando serve dare profondità), una condizione fisica precaria (caldo o no, squadra lentissima: abbiamo capito vedendo dopo le altre gare che tutti correvano più di noi), e una stella della squadra che al di là del giocare bene o male sembra impegnarsi davvero troppo poco, con tante parole e poco pressing, e il caffè è servito. Poi certo gli episodi contano sempre: se Balotelli la mette con la Costa Rica, se l’arbitro non è troppo severo con Marchisio, se non ne lasci tre liberi su un angolo a 9 minuti dalla fine contro l’Uruguay (!)… ma rimane che il Mondiale per noi è stato come un Caffè amaro, anzi amarissimo.
Alberto Rossi