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Made in China? Basta!

Un progetto di legge, approvato martedì 11 ottobre dal Senato americano, rischia di scatenare una guerra commerciale tra Washington e Pechino.  In un ambiente politico ed economico molto delicato, i senatori statunitensi vogliono frenare le importazioni dalla Cina che, a loro avviso, sarebbero avvantaggiate dalla manipolazione dello moneta cinese e danneggerebbero i lavoratori americani. La risposta di Pechino non si è fatta attendere, ma i dubbi sulla sortita di stampo protezionistico e del suo reale impatto sull’economia americana e cinese sono molti

TENSIONE TRA USA E CINA – I rapporti tra le due prime economie del mondo non sono certo dei migliori, in particolare dopo l’accordo tra gli Stati Uniti e Taiwan per la vendita di armi, tra cui alcuni F-16, che ha fatto irritare parecchio il governo cinese, al punto da costringere l’Amministrazione Obama a ritirare gli aerei da combattimento dall’accordo. Dal punto di vista economico gli Stati Uniti accusano la Cina di infrangere in maniera continuativa le regole del WTO (World Trade Organization) sul commercio e di mantenere artificiosamente sottovalutato il renminbi. Oltre alla problematica relazione tra Washington e Pechino è necessario tenere presente la situazione interna americana. A seguito della crisi economica internazionale, la politica americana non è riuscita ad evitare un declino del reddito intorno al 10%, la svalutazione delle proprietà immobiliari e una disoccupazione superiore all’8%. A ciò si aggiunge, dopo le elezioni di mid-term dello scorso autunno, un Senato con maggioranza democratica e una Camera dei Rappresentanti a maggioranza repubblicana che complicano non poco la situazione. Infine l’inizio imminente delle primarie, e più in generale l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, si trasformano in una corsa alla conquista dei voti dei blue collar workers e dei latinos, categorie molto sensibili all’impatto del commercio internazionale sull’occupazione americana. LA PROPOSTA – Il disegno S.1619 prevede che il Ministero del Tesoro rediga ogni due anni un rapporto sull’andamento della politica monetaria internazionale e dei tassi di cambio tra il dollaro e le altre valute, rapporto che dovrà essere presentato in Parlamento. Inoltre incarica il Ministero del Tesoro di verificare semestralmente il reale tasso di cambio delle valute straniere, controllando che non ci siano stati accumuli ufficiali o semi-ufficiali, da parte dei governi, di assets americani per fini legati al riequilibrio della bilancia dei pagamenti. Infine, la parte più rilevante, emenda il Tariff Act del 1930 per riallineare il prezzo di importazione dei prodotti nel caso in cui il governo di provenienza tenga artificialmente sottovalutata la propria valuta, in relazione al dollaro. In pratica, secondo il Senato americano, se un Paese manipola la propria moneta compie un’azione di concorrenza sleale cui il governo statunitense pone rimedio applicando delle trade penalties. Il testo ha passato la lettura a Capitol Hill con una maggioranza di 63 a 35, con diversi senatori repubblicani che hanno votato a favore del Currency Exchange Rate Oversight Reform Act of 2011. Dei candidati alle primarie repubblicane solo Rick Perry, il governatore del Texas vicino al tea party, si è opposto pubblicamente alla proposta di legge, mentre il più moderato Mitt Romney ha scritto un duro intervento sul Washington Post contro la politica economica e commerciale cinese. Il difficile compromesso tra lo spirito liberista e la necessità di catturare i voti delle unions ha fatto sì che non ci sarà un passaggio alla Camera dei Rappresentanti e, quasi sicuramente, questo testo non verrà neanche discusso. LA REAZIONE CINESE– Nonostante sia remota la possibilità dell’effettiva entrata in vigore di una legge così punitiva, la risposta cinese non si è fatta attendere. L’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha paragonato il progetto di legge allo Smoot-Hawley Act del 1930, il quale contribuì al peggioramento della situazione economica mondiale in seguito alla Grande crisi. Diversi esponenti del governo di Pechino hanno annunciato che una politica di stampo protezionistico da parte statunitense non rimarrebbe senza conseguenze. Nella realtà si è fatto ben poco, anzi la banca centrale cinese ha rivisto al rialzo il tasso di cambio tra renminbi e dollaro, lanciando così un segnale distensivo. Yi Gang, direttore dell’agenzia statale che regola il tasso di cambio, sostiene che un rafforzamento del renminbi sarebbe vitale per l’economia cinese perché una sottovalutazione della moneta causa una diminuzione reale del reddito e il surplus della bilancia cinese, che è la causa principale del problema inflazionistico in Cina. Analisti americani rilevano che, sebbene il renminbi si sia rivalutato del 30% dal 2005, la moneta cinese sia mantenuta sottovalutata del 40% rispetto al dollaro.

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CHI VINCE E CHI PERDE – Secondo uno studio del MIT di Boston esiste una relazione tra l’importazione di prodotti cinesi e il più basso tasso di occupazione delle aree manifatturiere. Inoltre il peso della più alta disoccupazione ricade su tutti i contribuenti come costo sociale. Il vantaggio è per i consumatori che hanno a disposizione beni più economici e imprese che, per rimanere sul mercato, sono costrette a investire molto nell’innovazione e nella ricerca e sviluppo. Come fa notare l’Economist è invece più difficile trovare una relazione così limpida tra l’andamento della valuta cinese e il disavanzo commerciale degli Stati Uniti con la Cina. I problemi riguardanti la proprietà intellettuale e il suo trasferimento, le leggi cinesi sulla proprietà delle imprese e i sussidi all’esportazione dovrebbero preoccupare molto di più i lavoratori americani. GLI USA TORNANO ISOLAZIONISTI? – La mossa del Senato ha quindi una valenza sia di politica interna che di politica estera, ma non bisogna pensare che gli Stati Uniti siano pronti a una svolta isolazionista. Come già fece Nixon nel 1971 quando, per convincere gli altri governi a lasciar svalutare il dollaro, impose una tassa d’importazione del 10%, così il Senato cerca di convincere il governo cinese a rivalutare il renminbi imponendo delle barriere tariffarie (un episodio simile accadde anche nel 2005, spingendo Pechino a rivedere la propria politica monetaria). La misura non farebbe presagire una nuova politica protezionistica anche perché, qualche giorno prima del voto a Capitol Hill, sono stati raggiunti gli accordi bilaterali con Panama, Colombia e Corea del Sud con cui vengono maggiormente liberalizzati gli scambi commerciali. Inoltre potrebbe arrivare presto sui banchi delle Commissioni parlamentari un nuovo disegno di legge per rilasciare le cosiddette “start-up visa”, ovvero visti facilitati per gli stranieri che investono in attività produttive negli Stati Uniti. Davide Colombo [email protected]

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Davide Colombo
Davide Colombo

Sono laureato in Relazioni Internazionali con una tesi sulla politica energetica. Ho frequentato un master in Diplomacy. Mi interesso e scrivo soprattutto di Stati Uniti. Le opinioni espresse negli articoli sono personali.

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