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La crisi del Visegrád

Il recente conflitto in Ucraina ha messo in seria discussione il futuro del gruppo di Visegrád, evidenziando le divisioni interne dell’Organizzazione e bloccandone di fatto ogni ulteriore allargamento in Europa orientale. Decisivo nella crisi attuale il ruolo dell’Ungheria, contraria alle sanzioni anti-russe dell’Unione europea e parzialmente ostile al nuovo Governo di Kiev.

DALL’UNIONE ALLA DIVISIONE – La crisi in Ucraina ha rappresentato un importante banco di prova per il Visegrád 4 (V4), l’ambiziosa alleanza politico-militare in Europa orientale formata da Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca. Inizialmente i drammatici eventi rivoluzionari di Kiev hanno infatti spinto tutti i membri del gruppo a uno sforzo diplomatico comune, segnato da molteplici dichiarazioni ufficiali a sostegno del nuovo Governo ucraino e dall’unanime condanna del referendum separatista in Crimea dello scorso marzo. I motivi di questa unità d’azione sono facilmente comprensibili: la destabilizzazione dell’Ucraina minaccia la sicurezza militare di tutti i Paesi del Visegrád e le relazioni commerciali di Polonia, Ungheria e Slovacchia con il loro vicino orientale rappresentano una fetta importante del fatturato economico di questi attori. Inoltre la possibile interruzione delle forniture di gas dalla Russia, visto il passaggio in territorio ucraino dei principali gasdotti verso l’Europa, costituisce un pericolo gravissimo per la stabilità di tutti i membri del V4, dipendenti in misura più o meno consistente dalle risorse energetiche di Mosca.
Perciò i Paesi del gruppo hanno cercato per gran parte della scorsa primavera di fornire sostegno diplomatico ed economico al Governo di Kiev, seguendo la linea ufficiale adottata dall’Unione europea verso la crisi. Ma l’approvazione di significative sanzioni economiche contro la Russia durante l’estate, a seguito della guerra civile nel Donbass, ha provocato gravi divisioni tra i membri del V4, mettendo a rischio il futuro stesso dell’alleanza. L’Ungheria si è infatti smarcata clamorosamente dagli altri partner del Visegrád, criticando le azioni militari di Kiev in Ucraina orientale e chiedendo maggiore autonomia politica per la minoranza ungherese in Transcarpazia. E Slovacchia e Repubblica ceca hanno mostrato di gradire poco le misure “punitive” contro Mosca varate da Bruxelles, lamentandone l’impatto negativo sulle loro economie. Il premier slovacco Robert Fico, per esempio, ha accusato le Istituzioni europee di adottare politiche «insensate e controproducenti», mentre il presidente ceco Milos Zeman ha cercato di minimizzare gli effetti delle sanzioni per le industrie del proprio Paese operanti sul mercato russo.

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Fig.1 – Il premier ungherese Viktor Orbàn

ORBÁN CONTRO TUTTI – Sono state soprattutto le azioni politiche del premier ungherese Viktor Orbán a scatenare le polemiche più roventi all’interno del Visegrád, mettendo letteralmente il Governo di Budapest contro quello di Varsavia, sostenitore sin dall’inizio della crisi ucraina di una politica intransigente verso la Russia. Le pressioni di Orbán su Kiev per una maggiore autonomia della minoranza ungherese in Transcarpazia hanno infatti provocato la reazione rabbiosa delle Autorità polacche, che hanno accusato l’Ungheria di sostenere la politica disgregatrice di Mosca in Ucraina. Inoltre la continua opposizione del Governo ungherese alle sanzioni economiche contro la Russia ha aumentato i dubbi e le divisioni tra i membri della UE su tali misure, inficiandone parzialmente l’efficacia. Inevitabile quindi che Orbán venga quasi visto nelle capitali più filo-atlantiche d’Europa (Varsavia e Londra soprattutto) come una sorta di “quinta colonna” di Putin in Europa orientale, volta a sostenere i piani aggressivi del Cremlino nella regione.
In realtà Orbán difende esclusivamente i propri interessi nazionali, anche a costo di mettere a rischio la permanenza stessa dell’Ungheria nel Visegrád e nella UE. Euroscettico convinto, il suo Governo mira a espandere la presenza economica ungherese sui mercati orientali, incluso quello russo, e a tale scopo ha incrementato considerevolmente la propria cooperazione industriale e finanziaria sia con Mosca che con Pechino, ignorando costantemente le obiezioni politiche dei propri partner occidentali. Grazie a questi sforzi Budapest è diventata negli ultimi anni uno dei maggiori centri di interesse per gli investitori cinesi in Europa, mentre grandi banche russe come la Sberbank hanno aumentato la propria presenza sul territorio ungherese, finanziando anche ambiziosi progetti infrastrutturali come la costruzione di un nuovo reattore nucleare nella città di Paks. Allo stesso tempo Gazprom pare intenzionata a includere seriamente l’Ungheria nel progetto South Stream, aumentando le proprie esportazioni di gas verso Budapest. È chiaro quindi che Orbán non ha alcuna intenzione di sacrificare questi ingenti interessi economici per la difesa di un’Ucraina militarmente debole e politicamente instabile.
Inoltre, sulla questione della minoranza ungherese in Transcarpazia il suo Governo non può fare alcuna concessione a quello di Kiev per via delle pesanti pressioni interne del partito di estrema destra Jobbik, vincitore di ben 23 seggi parlamentari alle ultime elezioni politiche dello scorso aprile. Ultranazionalista e antisemita, Jobbik ha fatto della difesa dei diritti delle minoranze ungheresi all’estero uno dei principali cavalli di battaglia, raccogliendo numerosi consensi in varie regioni del Paese e mettendo spesso Fidesz, il partito di Orbán, in grave difficoltà. Da qui la decisione del Governo di Budapest di chiedere maggiori garanzie politiche per i 150mila ungheresi della Transcarpazia, a dispetto delle attuali difficoltà del Governo ucraino nel Donbass e delle reazioni negative degli altri membri del V4. Per Orbán l’indebolimento politico di Jobbik appare ben più importante dei danni all’immagine estera dell’Ungheria provocati da tale richiesta. Ed è una scelta già risultata vincente alle elezioni europee di fine maggio, dove Fidesz ha ottenuto un netto successo a spese proprio del partito ultranazionalista guidato da Gábor Vona.

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Fig. 2 – Il primo ministro slovacco Robert Fico

«ERA POST-ATLANTICA» – Le divisioni all’interno del Visegrád sull’Ucraina persistono anche nel contesto NATO e si sono palesate apertamente al recente vertice dell’Alleanza atlantica in Galles. In tale sede tutti i membri del gruppo, esclusa la Polonia, hanno infatti mostrato scarso entusiasmo per il rafforzamento difensivo della NATO in Europa orientale e molti osservatori internazionali dubitano della loro reale determinazione a contenere militarmente la Russia nella regione. Sia la Slovacchia che la Repubblica ceca, per esempio, hanno annunciato aumenti risibili delle proprie spese militari nei prossimi anni, tenendole ben al di sotto del 2% del PIL richiesto ufficialmente dai partner occidentali dell’Alleanza (in realtà non rispettato da anni dalla maggior parte dei Paesi europei). Il Governo slovacco ha anche offerto poco in termini di supporto logistico, proponendo solo la creazione di una nuova base NATO a Poprad. Una decisione già contestata dal Sindaco della cittadina, Anton Danko, che ha promesso addirittura un referendum popolare su tale iniziativa.
A sorpresa l’Ungheria ha invece promesso una considerevole quantità di uomini e mezzi per la difesa del Baltico, inclusi caccia da combattimento e aerei da ricognizione. Ma nessuno crede veramente alla buonafede di Orbán e la sua riluttanza ad aumentare sostanzialmente il budget militare ungherese per i prossimi anni sembra confermare tale scetticismo. Nel 2022 l’Ungheria dovrebbe infatti arrivare a spendere solo l’1,39% del proprio PIL per la Difesa, cifra assolutamente inadeguata anche per gli standard più modesti del Visegrád. Inoltre Orbán ha già promesso di agire da “colomba” in economia, mantenendo il più possibile normali relazioni commerciali e finanziarie con Mosca.  Nessuno si fa quindi illusioni sull’atlantismo di Budapest e alcuni analisti cominciano addirittura a parlare di «era post-atlantica» per l’intera Europa orientale, con l’entusiasmo filo-occidentale delle prime generazioni politiche del dopo Guerra Fredda sostituito dalla pragmatica realpolitik di leader come Orbán e Fico.
E anche il V4 sembra pagare gli effetti di tale transizione generazionale, rimanendo funzionale solo su argomenti secondari e poco controversi. Lo sviluppo istituzionale dell’Organizzazione risulta infatti bloccato e anche la possibilità di un allargamento del gruppo alla Romania pare temporaneamente archiviata. Secondo Edward Lucas, editorialista dell’Economist, la crisi in Ucraina ha svelato la natura debole e contraddittoria del V4, cancellandolo dalla mappa geopolitica d’Europa. Un giudizio forse estremo, ma difficile da contestare alla luce degli eventi di questi ultimi mesi.

Simone Pelizza

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Foto: European People’s Party – EPP

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Simone Pelizzahttp://independent.academia.edu/simonepelizza

Piemontese doc, mi sono laureato in Storia all’Università Cattolica di Milano e ho poi proseguito gli studi in Gran Bretagna. Dal 2014 faccio parte de Il Caffè Geopolitico dove mi occupo principalmente di Asia e Russia, aree al centro dei miei interessi da diversi anni.
Nel tempo libero leggo, bevo caffè (ovviamente) e faccio lunghe passeggiate. Sogno di andare in Giappone e spero di realizzare presto tale proposito. Nel frattempo ho avuto modo di conoscere e apprezzare la Cina, che ho visitato negli anni scorsi per lavoro.

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