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Verso Parigi 2015 per il contrasto al cambiamento climatico

Secondo le stime delle Organizzazioni internazionali nel 2020 la popolazione mondiale raggiungerà quasi 8 miliardi di persone, e la gran parte vivrà in zone urbane con uno stile di vita sempre più simile a quello dei Paesi sviluppati. L’inarrestabile crescita demografica in atto esercita pressione sempre più forte sulle risorse del pianeta (acqua, terra e combustibili) e provoca cambiamenti climatici attraverso le attività industriali. A dicembre 2015 i rappresentanti di 196 nazioni si riuniranno per discutere di clima, ambiente e sostenibilità

1) UNFCCC / COP21 / CMP11?

UNFCCC è l’acronimo del trattato United Nations Framework Convention on Climate Change, a oggi l’unica finestra di dialogo internazionale sull’ambiente. Il prossimo incontro dopo quello di Lima che si è da poco concluso, si terrà a Parigi nel dicembre 2015. La capitale francese ospiterà questo grande summit su clima e ambiente che riunirà per la ventunesima volta i rappresentanti dei Paesi membri delle Nazioni Unite (COP21) e per l’undicesima volta i Paesi che hanno firmato l’accordo di Kyoto (CMP11). L’iniziativa venne proposta per la prima volta nel 1992 durante l’Earth Summit di Rio De Janeiro, per poi diventare appuntamento ufficiale dal 1994. Lo scopo è la stabilizzazione della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, tra i quali il diossido di carbonio (CO2), considerato il primo fattore di cambiamento climatico globale. Sebbene il trattato non ponga vincoli legali agli Stati membri, gli appuntamenti annuali servono da una parte a negoziare protocolli (questi sì legalmente vincolanti) specifici e dall’altra a discutere i progressi dei vari Paesi in termini di protezione ambientale e sostenibilità.

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2) COSA SI È FATTO IN PASSATO?

Uno dei primi risultati ottenuti dal forum fu obbligare i Paesi membri alla quantificazione delle proprie emissioni di gas serra. Uno storico passo avanti fu fatto poi nel 2005 con l’introduzione del famoso protocollo di Kyoto (proposto nel 1997), con cui 37 Stati industrializzati e l’Unione europea si impegnavano a mantenere le emissioni sotto certi limiti per un periodo di 7 anni.

Dal 2007 le negoziazioni sono diventate più serrate. Quell’anno a Bali più di 60 Paesi in via di sviluppo (PVS) hanno deciso volontariamente di introdurre politiche a favore della sostenibilità. Nel 2009, a Copenhagen, 114 Stati si sono accordati per limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2,0°C attraverso politiche nazionali non costrittive e ad hoc. Parti dell’accordo vennero poi siglate formalmente l’anno successivo a Cancún. Gli appuntamenti degli ultimi tre anni, a Durban (2011), Doha (2012) e Varsavia (2013), hanno ribadito la crescente preoccupazione per la situazione attuale e in qualche modo ammesso il parziale fallimento del forum. A Durban è stato fissato un limite di tre anni per l’introduzione di un nuovo protocollo, che quindi dovrebbe essere discusso a Parigi. I round di Doha e Varsavia si sono concentrati sulla questione degli emendamenti al protocollo di Kyoto, in scadenza nel 2012, che molti Paesi non hanno voluto ratificare per il secondo periodo (2012-2020).

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3) CHI INQUINA DI PIÙ? E COME?

I Paesi che inquinano di più sono le due principali economie mondiali, Cina e Stati Uniti, seguite da altri grandi emergenti come India, Russia e Iran. Nella top-ten tra le economie sviluppate rimangono Regno Unito, Germania, Giappone, Corea del Sud e, da qualche tempo, anche il Canada. Le fonti primarie di gas serra sono l’uso di carburanti fossili (impianti industriali, mezzi di locomozione, etc.), la deforestazione, l’allevamento intensivo di bestiame e infine l’uso di fertilizzanti sintetici. Il fronte dei Paesi sviluppati che promuove una riduzione delle emissioni e l’introduzione di pratiche industriali “sostenibili” si è storicamente contrapposto a quello dei Paesi in via di sviluppo per cui i costi della sostenibilità rappresenterebbero una “barriera” alla crescita. In passato i PVS, la Cina soprattutto, hanno usato l’argomento del “nuovo colonialismo” per posticipare l’introduzione delle politiche di riduzione delle emissioni di CO2. Di fatto i leader cinesi hanno deliberatamente escluso l’ambiente dalla lista delle priorità. Tuttavia è oggi opinione comune che il Paese sia diventato ormai invivibile e ciò ripropone in modo pressante la questione di quale sia il livello di sviluppo economico (e di consumo) adeguato all’introduzione di vincoli all’inquinamento.

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4) NOVITÀ E ATTESE PER PARIGI 2015?

Dall’incontro di Parigi ci si aspettano grandi cose. In primo luogo, secondo gli accordi di Durban, questa conferenza dovrà segnare una tappa decisiva nella lotta all’inquinamento del pianeta mediante la definizione di un ambizioso programma che metta le basi per un solido protocollo post 2020, quando il secondo round di Kyoto scadrà nuovamente.

Parigi ha come obiettivo ufficiale quello di coinvolgere tutti i Paesi, sia sviluppati che in via sviluppo in un accordo “universale e costruttivo” sul clima. Ciò significa che il nuovo trattato da una parte deve raggiungere un grado di efficacia giuridica tale da essere applicato da tutti i membri, dall’altra deve favorire l’introduzione di politiche “green” che permettano a tutti di raggiungere l’obiettivo dei due gradi.

In termini pratici il nuovo protocollo dovrà trovare un equilibrio tra l’approccio “normativo” del protocollo di Kyoto e quello “discrezionale” degli accordi di Copenhagen. Alcuni leader hanno anche espresso l’auspicio che a Parigi si arrivi a una vera e propria tassa sulle emissioni, che possa finanziare incentivi per investimenti green.

Infine, ci si augura di arrivare a un cambiamento di paradigma attraverso la promozione di un nuovo approccio “sostenibile”. Invece di vedere il problema climatico come una partita a chi può inquinare di più, l’idea è quella di introdurre nuovi metodi e nuove logiche che permettano di rendere il nostro stile di vita più efficiente nell’uso delle risorse e più equilibrato nei consumi. Da qualche tempo la sostenibilità è diventata non solo un nuovo trend nella comunicazione globale, ma anche un settore economico emergente: secondo le stime delle Nazioni Unite l’invenzione di nuovi modi di produzione e di consumo potrebbero creare più di 60 milioni di posti di lavoro nei prossimi vent’anni.

5) QUALI SONO LE SFIDE?

Una tra le principali sfide è la sopravvivenza dell’UNFCC come piattaforma di dialogo e cooperazione tra Paesi. I critici sottolineano i sostanziali costi in termini economici, burocratici e, a quanto pare, anche ambientali ai quali non corrispondono adeguati risultati i termini di obiettivi raggiunti.

Molti Paesi, tra cui Canada, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda, dopo la scadenza del primo round di Kyoto, hanno deciso di non ratificare il trattato per la seconda volta e di unirsi al fronte degli scettici, capitanato dagli Stati Uniti. Le ragioni addotte sono molteplici: Stati Uniti e Canada ritengono ingiusto che i PVS non rientrino negli schemi di riduzione delle emissioni (nonostante siano le maggiori fonti di inquinamento) e dunque hanno preferito introdurre programmi green volontari su scala nazionale. Su questa scia Giappone, Corea e Nuova Zelanda vivono oggi il protocollo come un vincolo che mina la loro competitività rispetto ai maggiori concorrenti nell’Estremo Oriente: Cina, Indonesia e India.

Un’ulteriore sfida è quella di includere tra gli attori (o stakeholder) nuovi soggetti che ricoprono ruoli importanti nella battaglia per il clima: imprese e ONG ambientaliste. Le imprese sono attori fondamentali perché gli impianti industriali sono tra i primi produttori di emissioni e dipendono per le materie prime e per i semilavorati su sistemi economici che, nella loro struttura attuale, generano inquinamento. Oltretutto esse hanno sempre più una dimensione globale più che nazionale, si diramano in diversi Paesi scegliendo le loro sedi di produzione anche in base alla possibilità di inquinare. Le ONG invece fanno la parte dei “cani da guardia del sistema” e usano le loro massicce dimensioni e la loro influenza su scala internazionale per far leva sull’opinione pubblica e sui Governi attraverso attività di lobby e comunicazione.

Infine la sostenibilità. Tutti ne parlano, pochi hanno chiaro di cosa si tratta. È ormai evidente che l’inquinamento è diretta conseguenza del nostro stile di vita e della crescita economica, dunque la sostenibilità deve partire da qui. La sostenibilità è una sfida allo stato attuale del sistema produttivo e dei consumi che difficilmente può essere vinta dall’oggi al domani. Proprio perché richiede un cambiamento di mentalità e uno sforzo collettivo a ogni livello della società, il processo sarà lento, contorto e certamente non indolore.

Valeria Giacomin

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Un chicco in più

Questo pezzo fa parte de “Il Giro del Mondo in 30 Caffè”, il nostro outlook per il 2015. Lo potete trovare per intero qui. Buona lettura!

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Valeria Giacomin
Valeria Giacomin

Laurea Triennale in Finanza presso l’università Bocconi nel 2009, Double Degree in International Management con la Fudan University di Shanghai tra il 2009 e 2011 e master di secondo livello in Economia del Sud Est Asiatico presso la SOAS di Londra nel 2012. Più di due anni in giro per l’Asia e gran voglia di avventura. Tra il 2010 e il 2012 ho lavorato in Vietnam come analista, a Milano come giornalista e a Città del Capo presso una compagnia e-commerce.
Le mie aree d’interesse sono il commercio internazionale, business development e dinamiche di globalizzazione nei paesi emergenti, in particolare nel settore delle commodities agricole.
Dal 2013 sono PhD Fellow in Danimarca presso la Copenhagen Business School. Sto scrivendo la mia tesi di dottorato sull’evoluzione del mercato dell’olio di palma in Malesia e Indonesia e più in generale seguo progetti di ricerca sul settore agribusiness in Sudest Asiatico.

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