Il fenomeno dell’home-grown terrorism è radicalmente collegato a quello dei foreign fighters. Nel campo di analisi del jihadismo, la locuzione foreign fighter è utilizzata per indicare un individuo che prende parte a un jihad combattuto in uno Stato diverso da quello in cui vive
L’ORIGINE IN EUROPA – Il primo caso di jihad con una forte componente di combattenti europei è stato quello bosniaco del 1995. Da allora, minoranze di combattenti provenienti dal Vecchio Continente sono state osservate in maniera più o meno netta in tutti gli scontri a sfondo jihadista che seguirono, tra cui quelli in Mali, Cecenia, Somalia, Siria, Yemen e Iraq.
Quello dei foreign fighters è un tema di forte preoccupazione per le agenzie di sicurezza. Sono essenzialmente due le questioni più scottanti legate a loro: da un lato essi sono indice di una scena jihadista, formale o informale, presente sul territorio di partenza; dall’altro, una volta tornati nel Paese di origine, questi pongono un rischio alla sicurezza dello stesso. Cerchiamo di seguito di analizzare entrambe le questioni.
La prima ondata di partenze in direzione Europa – Levante, fra il 2011 e il 2013, è stata un fenomeno verticale, in cui aspiranti jihadisti europei, radicalizzati in maniera per lo più autonoma o in collettivi ristretti, cercavano sul proprio territorio individui in grado di rendere possibile il linkage: bridging person con un bagaglio di agganci e conoscenze adeguate per assicurare la riuscita dell’operazione.
Fig.1 – Alcune donne musulmane manifestano contro l’intervento in Mali nei pressi dell’ambasciata francese a Londra
DINAMICHE DI SCIAME – Gruppi quali Sharia4, Profetens Umma, Fursan al-‘Izza e Ansar al-Sunna sono stati funzionali alla maggior parte dei casi di collegamento, tanto che il loro coinvolgimento, in assenza di altri pattern operativi, è stato spesso dimostrato in maniera negativa: scarsi numeri di foreign fighters in determinati Paesi sarebbero dovuti alla poca penetrazione dei suddetti gruppi in quelle regioni. Seppure l’ importanza di questi network sia indiscutibile, oggi non sembra più reggere la comparazione fra alti numeri di foreign fighter e una sviluppata scena jihadista nello stesso Stato.
La nozione primaria da tenere a mente è che la dinamica di radicalizzazione e collegamento oggi tende sempre più all’orizzontalità: bottom – bottom, dal basso verso il basso. Questo tipo di meccanismo, in cui valgono sempre di più i giri di amicizia, la condivisione di materiale e la reciproca fiducia, porta con sé importanti conseguenze pratiche.
Per prima cosa, ci si svincola dalla necessità di una scena jihadista territoriale, abbandonando il concetto di gruppo a favore di quello aggregazione (o, come le agenzie di intelligence suggeriscono, di sciame). Questi sciami non conoscono gerarchia, sono estramemente fluidi, gli elementi al loro interno sono facilmente sostituibili, ed ogni membro è in grado di influenza e indirizzare il volo collettivo.
Seconda importante conseguenza: la condivisione totale di know-how e la facilità dei modelli replicativi offerta dai social network rende ogni potenziale destinatario/consumatore di materiale anche un potenziale mittente/produttore.
Terza conseguenza: la tendenza della propaganda online verso forme sempre più radicali di contenuti, e l’aumentata relativa facilità con cui si può passare dalla teoria (il jihadista da tastiera) alla pratica (dal sostegno dell’attivista, al versamento dei fondi, alla partenza), appiattiscono fortemente la differenza fra i due strumenti classici dell’islamismo, la da’wa e il jihad, profilando una pericolosa via mediana ibrida fra i due e sgretolando gli estremi del profilo del foreign fighter verso forme meno definite e ancor più subdole da monitorare. Si hanno così fighter sempre meno foreign, ma che anzi si radicano profondamente nella propria società, e foreigner sempre meno fighter, che apportano al gruppo di destinazione altri expertise e assolvono a funzioni extra-belliche. Da ultimo, in altri contesti ancora, in alcuni Paesi non europei è vero il contrario della tesi di partenza: sarebbero proprio l’assenza di piattaforme jihadiste interne e il clima di estrema repressione la causa della militanza all’estero.
Fig.2 – Attivisti del gruppo Sharia4Belgium durante una manifestazione
I RISCHI – Per quanto invece riguarda il calcolo dei rischi posti dal ritorno dei foreign fighters, la situazione è, se possibile, ancora più complessa. Si calcola generalmente che di tutti i combattenti stranieri che sopravvivono al jihad e decidono di tornare indietro (e riescono a farlo), uno su nove tenta l’azione violenta anche nel proprio Paese. Se consideriamo quindi il caso del jihad siro-iracheno, con circa 3.000 combattenti europei e un tasso di fatalità del 20%, e poniamo che dei sopravvissuti l’80% voglia e riesca a tornare, l’Europa conoscerebbe 210 futuri casi di violenza di matrice islamica. Se consideriamo che nell’arco di 24 ore il monitoraggio di un individuo richiede dalle 20 alle 25 persone, si capisce che risulta utopico pensare alla sicurezza in termini assoluti. La comunità dei returnees porterà inevitabilmente a ulteriori prove di violenza come quella di Parigi.
Eppure, in termini assoluti, la minaccia è ben più ampia. Quello dei foreign fighter è un fenomeno che si auto-alimenta in un processo di continua partenza e ritorno di individui, che, quando in loco, creano legami, e quando indietro, li sfruttano per nuovi agganci. Ma esiste anche un rischio immateriale: quello della polarizzazione ideologica, della diffusione di un pensiero anti-democratico e politicamente estremista, e della segregazione settaria, espressione della tensione fra gruppi sciiti e sunniti all’interno di capitali europee, così come fra progressisti e salafiti, fra musulmani ed ebrei.
Marco Arnaboldi
[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]
Un chicco in più
Questo articolo è parte dello speciale Hot Spot – Europa e Islam contro il terrorismo, uno speciale a 360 gradi in cui 7 autori diversi analizzano vari aspetti a partire dai fatti di Parigi.
[/box]
Foto: Abode of Chaos