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L’inizio della fine

I contendenti stanno affilando le armi: da una parte il golpista dalle origini bergamasche, Roberto Micheletti, che ha sospeso le libertà costituzionali, dall’altra il presidente campesino, Manuel Zelaya, deportato dai militari e “eroicamente” rientrato in patria sotto le ali accoglienti e potenti dell’ambasciata brasiliana

TENSIONE E VIOLENZA – I due presidenti si stanno preparando a quella che pare essere l’inizio della fine della crisi hondureña: le elezioni sono alle porte, novembre 2009, e entrambi devono sfruttare il momento prima che il voto del popolo legittimi un terzo a governare il paese, situazione probabilmente desiderata da molte diplomazie occidentali, una su tutte quella statunitense, che guarda con sfiducia entrambi i presidenti che si contendono adesso lo scranno esecutivo dell’Honduras. In mezzo, come spesso succede, la popolazione che in questi giorni ha perso alcuni dei diritti fondamentali di ogni persona: la libertà di manifestare, di pensiero, il diritto alla vita e all’integrità personale. Infatti da quando Zelaya è rientrato in Honduras le migliaia di persone che hanno manifestato in suo appoggio sono state disperse da gas lacrimogeni, spari e cariche di militari, con un uso eccessivo della forza. Il governo di fatto ha riproposto il coprifuoco notturno per evitare assembramenti e manifestazioni, anche di quelle, poche, a suo favore, mentre assedia l’ambasciata brasiliana, bloccando gli approvvigionamenti di acqua, cibo e medicine, per costringere Zelaya a uscire e a consegnarsi alle autorità. Domenica 27 settembre, inoltre, Micheletti ha dato un ulteriore "giro di vite" dichiarando la sospensione della costituzione e minacciando di negare l'immunità diplomatica all'ambasciata brasiliana.

UNO CONTRO L’ALTRO – Zelaya invece, dal balcone dell’ambasciata o dalle radio amiche, lancia inviti alla “mobilitazione finale”, “all’offensiva” per deporre il governo di fatto. Tuttavia, nonostante le parole forti e di militaresca memoria, le forze antigolpiste non hanno la capacità e i mezzi per lanciare un offensiva armata contro il governo di fatto, che controlla ed è appoggiato dai generali dell’esercito. Il movimento pro Zelaya è infatti formato da contadini, operai, studenti professori e sindacati che non hanno né l’organizzazione né le armi per poter lanciare per primi una guerra civile. È più probabile che le parole di Zelaya siano mirate a convocare imponenti manifestazioni, come quella che si è svolta ieri.Il governo di Micheletti invece utilizza tecnologie militari e terroristiche per tagliare le gambe agli oppositori. Oltre all’assedio all’ambasciata brasiliana, continuano infatti i tagli di corrente mirati alle catene radiotelevisive che contestano l’operato dei golpisti, mentre evitano l’entrata nel paese di qualunque diplomatico straniero. Proprio oggi sono stati trattenuti nell’aeroporto di Tegucigalpa 4 funzionari della OSA (Organizzazioni di Stati Americani), che dovevano preparare la missione dei ministri degli esteri della OSA i quali avrebbero dovuto cercare e trovare una soluzione diplomatica alla vicenda. L'OSA si è riunita ieri ma senza giungere ad un risultato concreto: la strategia del dialogo e della mediazione, finora, non ha dato i frutti sperati.

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NUOVA DIPLOMAZIA IN AMERICA LATINA? – Zelaya, dall’altra parte affila l’arma diplomatica, tessendo una rete in suo appoggio, che formalmente va dagli Stati Uniti alla Francia, mentre concretamente si sostiene soprattutto dei paesi latinoamericani, Brasile in testa, i quali vogliono risolvere pacificamente la contesa, senza cedere agli interessi americani e dimostrando di essere capaci di gestire da soli quel “giardino di casa” statunitense, che vorrebbero diventasse il loro privato giardino. Significativo è il ruolo del Messico, politicamente a destra e in aperto contrasto con le politiche chaviste, che ha appoggiato Zelaya fin dall’inizio e lo ha ricevuto con onori da capo di stato che neanche Obama aveva ricevuto, proprio per rafforzare l’idea latinoamericana di poter far a meno della diplomazia americana per risolvere conflitti interni alla regione, come era successo durante la crisi Ecuador – Colombia dell’anno scorso. Micheletti ostinatamente non pare voglia concedere nulla. È conscio che la OSA può solo cercare una soluzione pacifica: infatti non è prevista nella sua carta istitutiva l’opzione militare in caso di destituzione di un governo democraticamente eletto. Se gli Stati latinoamericani, di fronte al continuo rifiuto di Micheletti vorranno intervenire militarmente, dovranno creare una forza multinazionale che non avrebbe un supporto giuridico su cui fondarsi. È difficile infatti che le Nazioni Unite vogliano entrare nella questione con una missione dei caschi blu. La soluzione più probabile pare quindi aspettare le elezioni presidenziali in novembre che designeranno il successivo presidente. Tuttavia una domanda è d’obbligo: saranno libere elezioni con coprifuoco, un presidente destituito che lancia inviti alla violenza e un governo di fatto che blocca militarmente le radiocomunicazioni? Le Nazioni Unite e le ONG hanno già detto di no

Andrea Cerami 29 settembre 2009 [email protected]

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