Miscela Strategica – Oltre alla storica rivalità fra sunniti e sciiti, dal conflitto yemenita affiorano i desideri di Doha di umiliare la simbolica leadership di Riyad e le difficoltà del Regno a imporsi concretamente nel Golfo
INTERESSI CONDIVISI, APPROCCI DIVERGENTI – Mentre il Medio Oriente è dilaniato da conflitti settari, si consuma la discordia tra Arabia Saudita e Qatar. Nel tentativo di estendere la loro influenza regionale, i due Paesi si inseriscono in molteplici contesti, nei quali adottano approcci ad hoc caratterizzati dall’alternanza di cooperazione e aperta ostilità. Lo Yemen, considerato un nuovo territorio di conquista piuttosto che un Paese in emergenza umanitaria, rappresenta perfettamente tale condotta. Decisamente più povero delle vicine monarchie, la sua posizione strategica svela il motivo del pronto intervento della coalizione sunnita, mentre la sua debolezza politica lo rende un facile bersaglio dei loro giochi di potere. Tradizionalmente, gli Al Saud agiscono per mantenere lo status quo nelle aree considerate di vitale importanza per la sicurezza interna. Al contrario, gli Al Thani improntano la loro politica estera al dinamismo, in modo da affermarsi nelle aree ritenute geopoliticamente rilevanti. Nello Yemen, Doha e Riyad operano sullo stesso fronte, preoccupate dell’avanzare dei combattenti dell’Ansurallah (gli Houthi), considerati la longa manus di Teheran. Da sempre, infatti, si teme la presenza di una solida fazione sciita nel Golfo, sia perché potrebbe espandersi e minacciare la stabilità dell’intera area, sia perché, simbolicamente, ridimensionerebbe l’autorità sunnita-saudita. Inoltre, la città di Aden e lo Stretto di Bab el-Mandeb sono arterie vitali per il commercio energetico internazionale, quasi esclusivamente navale: un accesso al Mare Arabico sarebbe, soprattutto per Riyad, un ulteriore segnale di indipendenza rispetto alle decisioni iraniane sullo Stretto di Hormuz.
Fig. 1 – Salman Saudi
LE PRIORITÀ DI RIYAD – Nella crisi yemenita, gli Al Saud intervengono istintivamente e assumono il comando delle operazioni, con il benestare delle altre monarchie (Oman escluso), proprio perché i loro interessi sono preponderanti rispetto ai loro. Il coinvolgimento del Regno, infatti, è principalmente legato alla sicurezza nazionale e solo secondariamente anche a questioni di supremazia regionale e di prestigio: da decenni lo Yemen è percepito come un’estensione periferica sulla quale l’intelligence saudita deve costantemente vigilare a causa della sua intrinseca instabilità e della sua forma repubblicana, ideologicamente ostile al Wahhabismo. Riyadh è allarmata dalla permeabilità delle frontiere ed è mossa dalla necessità di restaurare un’elite politica asservita ai propri interessi, soprattutto in virtù della presenza di gruppi terroristici lungo il confine e dell’eventualità che il rafforzamento degli Houthi spinga gli sciiti sauditi ad agire contro il Governo. La compattezza del fronte, oltre ad aver ben impressionato gli alleati occidentali (restii all’azione diretta ma preoccupati dalla situazione), ha sancito un momentaneo, quanto apparente, disgelo fra Doha e Riyad.
IL TORNACONTO DI DOHA – In realtà gli Al Thani partecipano ma non per motivi di solidarietà, sebbene arrestare l’avanzata sciita sia un obiettivo condiviso. Consapevole delle preoccupazioni saudite, il Qatar ne appoggia la guida in modo da potersi concentrare sui propri obiettivi e non sostenere costi troppo elevati. Incapace di sciogliere la duratura relazione fra Riyadh e Sana’a, il piccolo Emirato in passato è intervenuto nello Yemen esclusivamente sfruttando il proprio soft power e, dunque, ponendosi come mediatore nelle crisi locali, finanziando attori non istituzionali (AQAP) e investendo nelle fondazioni domestiche. Per Doha, l’attuale vuoto politico è l’occasione per costruire la propria sfera di potere, forte della vicinanza dei Fratelli Musulmani ad al-Islah (il principale avversario degli Houthi) e dello sgretolamento dei legami con i sauditi. Astutamente, il Paese sfrutta il proprio ruolo secondario: pur partecipando ai raid, il Qatar appare defilato e non direttamente responsabile, sebbene di fatto lo sia al pari di Riyadh, e può giustificare l’operazione come un mero sostegno al Regno. A rilanciare l’immagine dell’Emirato benefattore sono gli organi governativi, che sottolineano temi scottanti per i sauditi e pubblicizzano la generosità degli Al Thani: un esempio per tutti, la questione dei lavoratori yemeniti, che deportati ed abusati da Riyad, sono accolti ed hanno libero accesso all’istruzione e alla sanità in Qatar, il quale finanzia anche programmi locali di avviamento al lavoro (al di fuori della cornice del Gulf Cooperation Council e diversamente da quanto concordato). Per contro, passano in secondo piano, nell’informazione qatariota, le oltre 3000 persone morte nello Yemen a causa degli incessanti bombardamenti e i numerosi manovali, prevalentemente del Sud-est asiatico, deceduti nel corso dei lavori per la Coppa del Mondo del 2022.
Fig. 2 – Sito controllato dagli Houti dopo un bombardamento da parte dell’aviazione saudita
L’ESITO DEL CONFLITTO – È nello Yemen che si decidono gli equilibri e la sicurezza del Golfo. L’assunzione del comando della missione segna un impegno senza possibilità di ritorno per Riyad, che mette in gioco la propria credibilità per scoraggiare il consolidarsi di una presenza sciita ostile e riaffermare il controllo su Sana’a. Tuttavia, il protrarsi della missione logora lentamente l’autorevolezza del Regno, mentre giova a Doha. Il Qatar, infatti, pur essendo parte della coalizione, assiste, estraneo e ottimista, allo sgretolamento del prestigio saudita e dei precedenti legami politici nello Yemen. I bombardamenti quotidiani e le ingenti risorse stanziate non sono in grado di sconfiggere efficacemente la guerriglia e stanno, anzi, generando un’escalation insostenibile per gli Al Saud, convinti inizialmente della rapidità dell’impegno. La crisi non sembra essere prossima alla conclusione, né pare probabile un esito netto, dal momento che un approccio prevalentemente militare non favorisce la creazione di soluzioni politiche di lungo periodo. Tuttavia, qualora la coalizione dovesse trionfare, Riyad emergerebbe come indiscussa potenza regionale e ridimensionerebbe le mire dell’avversario. Dal canto suo, il Qatar dovrebbe ritornare a sfruttare il proprio ruolo diplomatico e di mediatore, canali attraverso i quali riesce efficacemente a diffondere la propria influenza e a intimidire Riyad. Se le operazioni dovessero fallire, i sauditi dovrebbero convivere con l’instabilità yemenita (frutto anche delle loro politiche di intromissioni) e avvicinarsi a Islah, ossia alla Fratellanza, nel tentativo di intervenire sulla transizione e scongiurare l’accerchiamento sciita (aggravato dai nuovi accordi sul nucleare iraniano). Doha, al contrario, sarebbe avvantaggiata, perché gode della duratura alleanza con i Fratelli e non è apertamente ostile agli sciiti, pur temendone una stabile presenza. Insomma, il Qatar è pronto a plasmare la propria politica estera in funzione dei mutamenti in atto, mentre Riyad rimane immobile sulle proprie posizioni, di fatto autolimitandosi nell’azione. Gli Al Thani stanno solo aspettando l’occasione per relegare i sauditi a un ruolo secondario mentre Riyadh deve affrontare una sfida che va oltre il prestigio, ossia quella per la sicurezza domestica.
Sveva Sanguinazzi
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