Cinquant’anni fa nasceva la Regione autonoma del Tibet. I rapporti con Pechino rappresentano una delle questioni più controverse della storia recente cinese. In questo articolo proviamo ad affrontare la questione da una prospettiva differente.
CINQUANT’ANNI DI RELAZIONI PECHINO-LHASA – Settembre è mese di celebrazioni e ricorrenze importanti. Il 3 settembre è stata organizzata una impressionante parata militare per commemorare il settantesimo anniversario della vittoria della guerra di resistenza contro il Giappone e della guerra antifascista mondiale, a cui non hanno partecipato le maggiori potenze occidentali che durante la seconda guerra mondiale hanno combattuto i regimi totalitari fascisti. Un altro evento importantissimo da interpretare, e ancor più trascurato dai media mainstream, è stato quello del primo settembre, in cui la Cina ha celebrato i cinquant’anni della costituzione della Regione autonoma del Tibet. Nella preparazione di questa celebrazione le autorità locali hanno ricordato i molti progressi ottenuti in materia di tutela e promozione della cultura e dei diritti sociali e politici delle minoranze etniche della Regione – oltre ai Tibetani, molte altre etnie, tra cui Han, Hui, Moinba, Lhoba, Naxi, Nu, Drung, vivono in Tibet da generazioni. I progressi sono riscontrabili su tutti i fronti, compresa la salvaguardia della lingua e il sostegno a una rete di informazione plurale e indipendente. Riguardo ai tibetani, giova ricordare che dalle elementari alla scuola media lo studio della lingua tibetana è obbligatorio, mentre alla televisione e alla radio si usa regolarmente il tibetano, oltre al mandarino, come nelle insegne dei negozi e nei nomi delle vie. I progressi socioeconomici non sono da meno. Secondo molti resoconti dettagliati, tra cui ricordiamo quello di Maxime Vivas, l’immagine mediata in Occidente di un Tibet che sarebbe vittima delle costrizioni e repressioni cinesi è totalmente irrealistica. Di seguito si offre una contestualizzazione della storia recente del Tibet finalizzata a fornire anche in questo caso alcuni spunti di riflessione e analisi per decostruire pregiudizi e offrire un’informazione completa.
CONTESTUALIZZARE LA CAUSA TIBETANA – Per comprendere la politica cinese verso il Tibet è necessario inquadrare la “questione” in modo ampio e il più possibile oggettivo. Innanzitutto su un piano puramente formale, di diritto internazionale, il Tibet non è stato occupato illegalmente, visto che non ha mai ottenuto lo status di membro delle Nazioni Unite ed è stato parte integrante della Cina per molti secoli (per una raccolta di documenti storici ufficiali che dimostrano la plurisecolare giurisdizione cinese sul Tibet si rinvia a: questo link; Wang e Nyima; Costa). Urgono quindi alcuni chiarimenti. È importante sottolineare che nel 1951 la Cina agì gradualmente e lentamente verso il Tibet, nel rispetto della proprietà aristocratica o monastica. «Per dieci anni il potere comunista centrale e il Dalai Lama hanno coesistito […] Il quattordicesimo Dalai Lama ha addirittura mantenuto importanti impieghi all’interno della macchina comunista […]» (Vivas). La dirigenza cinese stipulò un accordo per la liberazione pacifica, lasciando parecchi anni perché il clero potesse attuare le riforme necessarie allo sviluppo del Tibet nella Cina liberata. L’esercito cinese avrebbe potuto sbarazzarsi facilmente e velocemente della teocrazia lamaista, ma non lo fece. Ha tentato in tutti i modi di far sì che i cambiamenti necessari all’emancipazione del popolo tibetano venissero fatti autonomamente. Da qui l’accordo di 17 punti per la liberazione pacifica (Costa). Ancora nel 1955 il Dalai Lama ringraziò il governo cinese, scrisse un poema per la gloria di Mao e poco più tardi venne nominato segretario del Comitato per la formazione della Regione autonoma del Tibet. Ma la ribellione dei seguaci del lamaismo era già partita in alcune aree dell’est, mentre sua santità il Dalai lama, come scrive chiaramente nella sua autobiografia in merito ai suoi contatti con l’esercito cinese, tentava di “camuffare” le sue reali “intenzioni” (Vivas). Così, tra il 1956 e il 1959, alcuni gruppi di ribelli tibetani organizzarono attacchi armati – incoraggiati, finanziati e sostenuti dalla Central Intelligence Agency degli Stati Uniti – e contribuirono a incitare una reazione più decisa da parte delle Forze cinesi. Su questi fatti esiste una consistente letteratura (tra gli altri, si vedano Wang e Nyima; Conboy e Morrison; Michael Parenti; Losurdo). Fallito il primo tentativo statunitense di destabilizzazione nelle Filippine (andato poi a segno qualche anno più tardi), il Tibet diventò un banco di prova dello scontro ideologico-militare della Guerra Fredda, per destabilizzare la Cina comunista e sviluppare un modello di attacco replicato in seguito in Vietnam e Laos. Nel 1957 la CIA reclutò giovani tibetani residenti all’estero e addestrò 170 ‘guerriglieri Khampa’, successivamente paracadutati in Tibet e riforniti di armi. Ciò fu funzionale a lanciare un “movimento di resistenza efficace” per contrastare la Cina.
Fig. 1 – Lhasa, capitale del Tibet
IL REGIME TEOCRATICO E IL DALAI LAMA – Gioverà rimarcare il fatto che il legittimo intervento militare della Repubblica Popolare non fu più pesante del regime teocratico precedentemente in essere: un sistema feudale caratterizzato da una ristretta casta di religiosi privilegiati e, all’estremo opposto, una grande massa di servi e schiavi, spesso puniti con torture macabre o con la morte. Come detto, lo stesso Dalai Lama, che non ha mai rinnegato quel sistema, ha svolto ruoli totalmente contraddittori rispetto all’immagine edulcorata che ci viene restituita dai media: tutelato da bambino da Heinrich Harrer (poi entrato nelle SS naziste), da cui non ha mai preso le distanze, legato al leader religioso giapponese Aum Shinrikyo, responsabile dell’attacco al gas sarin a Tokyo nel 1995, fervente oppositore del culto Shugden (divinità della tradizione buddista venerata in molte parti del mondo) e, soprattutto, costantemente finanziato dalla CIA – fatto che lo stesso Dalai Lama definisce “segreto di Pulcinella” – dapprima in modo diretto e poi indirettamente tramite la National Endowment for Democracy (Vivas). Non a caso, prima che l’immagine del Tibet nel mondo venisse manipolata ad hoc per esercitare pressioni geopolitiche sulla Cina maoista, la considerazione che le potenze occidentali avevano di questa regione cinese era opposta a quella odierna: fin dal XIX secolo, osservatori e studiosi occidentali lo definivano “una teocrazia feudale”.
Un attento studioso come Michael Parenti ha scritto: «qualunque torto sia stato generato dalle nuove oppressioni introdotte dai cinesi in Tibet, dopo il 1959 la Cina ha fatto abolire la schiavitù e la servitù della gleba, ha posto fine a fustigazioni, mutilazioni e amputazioni (precedentemente previste come forme di sanzione penale) e ha eliminato le molte tasse che gravavano sui contadini. Nel contempo sono iniziati nuovi progetti di organizzazione del lavoro e di investimento che hanno ridotto significativamente la disoccupazione e la miseria. I cinesi hanno peraltro stabilito un sistema di istruzione laico, rompendo così il monopolio educativo dei monasteri, e hanno costruito sistemi moderni di approvvigionamento idrico ed elettrico».
In un periodo più recente la Cina ha peraltro corretto gli errori drammatici compiuti durante la Rivoluzione Culturale ed ha cominciato a sostenere in modo costruttivo le minoranze etniche: in Tibet come in altre regioni autonome il bilinguismo è consentito e praticato, la politica familiare è di gran lunga più morbida rispetto al resto del Paese – ove pure si sta riformando in profondità – e l’accesso a cariche pubbliche viene promosso e incentivato (Michael Parenti; Losurdo). Non a caso, secondo il professor Losurdo, «sin dalla ‘liberazione’ pacifica del Tibet nel 1951, il rovesciamento dell’antico regime in questa regione e la sua trasformazione politico-sociale si sono sì scontrati con un’accanita resistenza dei gruppi più reazionari e delle classi privilegiate ma hanno anche potuto contare su appoggi consistenti nell’ambito della società tibetana».
Fig. 2 – Il Dalai Lama, leader spirituale del buddismo tibetano (lamaismo)
LA TUTELA DELLE MINORANZE E I PROGRESSI POLITICO-SOCIALI – Dal 1965, anno della fondazione della Regione autonoma, tutti gli abitanti sopra i 18 anni di età hanno ottenuto il diritto di voto senza distinzioni etniche, di genere, religione ecc. E nel corso dei decenni il tasso di partecipazione al voto per i quattro livelli di governo (regione, prefetture, contee e villaggi) è cresciuto costantemente e si è attestato su una partecipazione superiore al 90% degli aventi diritto. I deputati tibetani e di altre minoranze etniche occupano la maggior parte dei posti ai vari livelli amministrativi, superando il 90% al livello di contea e città. Tale rappresentanza non si limita all’autogoverno, ma si estende, in proporzione, anche al livello centrale della nazione: nel Congresso Nazionale del Popolo risiedono infatti venti deputati tra tibetani e altre minoranze. Inoltre, in Tibet ogni minoranza ha i propri rappresentanti ed anche la percentuale di rappresentanti femminili è aumentata: a oggi il 25,4% del Tibet’s People Congress è occupato da donne. Dall’istituzione della Regione autonoma del Tibet, tutti i direttori del Comitato permanente del Tibet’s People Congress e i presidenti della Regione sono stati cittadini tibetani. Attualmente, oltre il 95% dei villaggi e delle comunità urbane in Tibet hanno istituito spazi pubblici di discussione e informazione gestiti direttamente dagli abitanti in tandem con i loro amministratori. Alla luce di questa breve ricostruzione è possibile asserire che i casi di suicidio, in prevalenza commessi da giovani monaci, non rappresentano il sentimento della maggioranza degli abitanti del Tibet (tra l’altro va ricordato che il lamaismo rappresenta solo uno dei quattro rami del Buddismo in Tibet e solo il 2% dei buddisti nel mondo). Le donne tibetane sono state per esempio felici di «non doversi più sposare quattro o cinque uomini e quindi di non essere incinte per quasi tutto il tempo della loro vita» (Michael Parenti) e, analogamente, una grande maggioranza degli abitanti della Regione è stata ben felice di poter usufruire di ospedali, cliniche, scuole e programmi sociali elaborati e promossi dal governo di Beijing (Daviesson). Purtroppo le complicate relazioni storiche tra la Cina e il Tibet non sono ancora finite, né si sono concluse le pressioni straniere. Così non è raro che i tumulti generati dalle manifestazioni “pro-Tibet” – come in molti cosiddetti “incidenti” avvenuti a partire dagli anni Novanta e culminati nel marzo 2008 – siano stati descritti dai media occidentali mainstream in modo distorto e talvolta completamente falso (si veda Parenti).
Fig. 3 – Una protesta di monaci tibetani
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE – L’uso politico dell’informazione ci dimostra chiaramente come i fatti tibetani rientrino a pieno titolo nelle dinamiche geopolitiche internazionali. Nel marzo del 2008 non ci fu alcuna repressione cinese in Tibet e, contrariamente a quanto raccontato da emittenti come la BBC che hanno dovuto scusarsi con il Governo cinese, furono i cittadini cinesi in Tibet a essere stati aggrediti da gruppi di tibetani. Una posizione, quest’ultima, che viene confermata anche da testimoni stranieri: «la polizia cinese ha solo fatto il proprio lavoro per preservare l’ordine e la pace a Lhasa» ha dichiarato Jim Kreston, 60 anni, che è stato testimone oculare dei disordini scoppiati in città (per approfondire si segnalano alcuni articoli e report sul tema). La Cina ha problemi simili con i separatisti musulmani del Xinjiang e, in misura diversa, di Hong Kong, che non a caso, insieme al Tibet, sono gli spazi geografici di intervento della National Endowment for Democracy (NED). Le ragioni di politica interna e di equilibrio internazionale esemplificano il diritto di un Governo sovrano d’intervenire per questioni di “ordine pubblico” e di interesse nazionale nell’arginare focolai secessionisti. Come ricorda Vivas «le costituzioni di alcuni Paesi occidentali descrivono i loro Paesi come ‘uno’ ed ‘indivisibile’ e non offrono meccanismi per un referendum regionale o nazionale che scinderebbe il Paese». Non va dimenticato, infine, che il Tibet è un territorio periferico, di confine, con ingenti giacimenti di materie prime minerarie (magnesio, potassio, uranio, litio, rame, ecc.) e alcuni significativi giacimenti di petrolio, che tanto condizionano la politica economica mondiale, come, nello specifico, l’espansione di Beijing nel mondo. È necessario pertanto avere uno sguardo meno miope sul Tibet e vedere di volta in volta come evolvono i vari interessi nazionali, regionali e internazionali.
Fabio Massimo Parenti
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Un chicco in più
Alcuni riferimenti per approfondire:
- Costa, Tibet, crocevia tra passato e futuro, Reggio Emilia, 2014.
- Conboy et J. Morrison, The CIA’s Secret War in Tibet, Kansas, 2002.
- Daviesson, “Tibetans and the Chinese State”, The Economist, 4 febbraio, 2012.
- Ewing, “Tibet, China and the West: Back to Stereotypes”, www.atimes.com, 28 marzo, 2008.
- Losurdo, Controstoria del liberalismo, Bari, 2005.
- Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi, Napoli, 2012.
- Parenti, M., “Friendly Feudalism: The Tibet Myth”, http://www.michaelparenti.org, gennaio 2007.
- Parenti, F.M, La Cina, la “causa tibetana” e le polemiche intorno alle Olimpiadi del 2008
- Tibet Facts and Figures 2014, China intercontinental Press.
- Wang and G. Nyima, The Historical Status of China’s Tibet, Beijing, 1997.
Siti consultati
- http://english.chinatibetnews.com/tt/201507/t20150706_680069.html
- http://www.cctv.com/english/20080408/101583.shtml
- http://www.cctv.com/english/20080416/103439.shtml
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Foto: than777