Un’importante partita si sta disputando nel sud-est asiatico. Una partita che vede coinvolte due superpotenze mondiali, gli USA e la Cina, un ricchissimo braccio di mare conteso, e dieci paesi emergenti della regione, uniti e divisi allo stesso tempo, bisognosi di investimenti esteri e protezione, confederatisi in un’organizzazione regionale, l’ASEAN, che, nata per assicurare un certo grado di cooperazione economica, è ora di fronte ad uno storico bivio
CONFINATI – Limitarsi ad assicurare la libera circolazione di merci ed investimenti, come vorrebbe Pechino, interessata ad assicurarsi la sovranità sul Mar Cinese Meridionale a discapito di alcuni paesi ASEAN, oppure, come piacerebbe agli USA, “diventare grande” ed elaborare posizioni politiche comuni di peso equivalente a quelle cinesi? Nulla di definitivo, per ora. Di certo, però, l’assenza di dialogo emersa dai vertici ASEAN tenutisi a Phnom-Pehn a luglio e novembre 2012, che lascia trasparire l’incapacità degli stati membri di discutere politiche condivise, sembra andare nella direzione auspicata dal gigante cinese. “Lunga vita ai legami di amicizia, solidarietà e cooperazione tra la Cina e il Regno di Cambogia”, c’era scritto su uno degli innumerevoli manifesti di benvenuto per il premier cinese Wen Jiabao visibili a fine novembre per le strade di Phnom-Pehn, in occasione del ventunesimo summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN); la Cina, che non è membro dell’organizzazione ma osservatore nel contesto dell’iniziativa ASEAN+3 lanciata nel 2001, è stata l’unica nazione a cui la Cambogia, sua buona alleata, ha tributato una tale accoglienza in vista dell’incontro intergovernativo.
TENTATIVI INFRUTTUOSI – Durante questi incontri i temi da trattare erano piuttosto caldi: la possibilità di istituire una vasta zona di libero scambio coinvolgente ASEAN, Cina, Corea del Sud, Giappone, Australia e Nuova Zelanda; l’opportunità di accelerare la risoluzione dei problemi di sovranità sul pescoso Mar Cinese Meridionale e sui suoi ricchi giacimenti sottomarini, da anni contesi tra Brunei, Vietnam, Malesia, Filippine (membri dell’ASEAN), Cina e Taiwan. Già a luglio si tentò, con un primo summit tenutosi sempre a Phnom-Pehn e conclusosi nel caos senza nemmeno l’adozione di un documento comune, di consolidare una posizione condivisa ASEAN (basata sulla Convenzione ONU sul diritto del mare del 1982) circa le pretese sul braccio di mare delimitato dalla Malesia a sud, dalle Filippine ad est, dalla Cina a nord e dal Vietnam ad ovest. In questo braccio di mare transita ogni anno metà delle merci spedite via nave nel mondo e sotto il quale, secondo stime cinesi, si troverebbe petrolio per 130 miliardi di barili, pari alla somma delle riserve stimate di Venezuela, Russia e Iran. In quell’occasione, vista l’appetibilità e l’importanza economica della posta in gioco, i membri dell’ASEAN coinvolti nella controversia, contravvenendo ai suggerimenti espressi dagli USA e dalle loro alleate Filippine di Benigno Aquino, preferirono non esprimere una posizione condivisa, continuando ad agire bilateralmente con gli altri attori coinvolti nella disputa senza avvalersi della piattaforma fornita dall’ASEAN. Allo stesso tempo, la Cambogia, padrona di casa senza accesso al mare e quindi non coinvolta nello scontro politico-diplomatico (talvolta sfociato in minacce militari), si schierava apertamente su posizioni filocinesi, dopo aver ricevuto da Pechino dieci miliardi di dollari in aiuti dalla caduta dei Khmer Rossi ed investimenti dieci volte superiori rispetto a quelli americani, investimenti che, simbolicamente, avevano contribuito anche all’edificazione del Palazzo della Pace di Phnom-Pehn, sede dei vertici di luglio e novembre. Così, malgrado la significativa presenza di un appena rieletto Barack Obama a conferma del ruolo centrale che la regione Asia-Pacifico avrà nella politica estera americana dei prossimi anni, e a dispetto dei buoni propositi degli inizi esemplificati dalla fiduciosa dichiarazione del Segretario Generale dell’ASEAN Surin Pitsuwan, che prima del summit affermava: “miriamo a risolvere il problema insieme”, l’incontro si è chiuso senza significativi passi avanti, precludendo anche la possibilità di adottare un Codice di Condotta (CoC) inteso ad evitare eventuali escalation militari nell’area ed ulteriori inasprimenti della controversia.
I PIATTI DELLA BILANCIA – E’ evidente che, se da un lato gli USA e le Filippine auspicano la creazione di un solido blocco ASEAN per affrontare la questione Mar Cinese Meridionale su un piano di maggiore parità rispetto alla superpotenza cinese, quest’ultima, appoggiata dai fidi amministratori cambogiani conquistati a suon di investimenti diretti esteri, ha tutto l’interesse ad impedire la creazione di un’intesa comune a tutti i paesi membri sul tema per poter, così, avere gioco più facile nei rapporti con interlocutori che, presi singolarmente, esprimono posizioni caratterizzate da una certa debolezza. Così, lo scontro strategico tra USA e Cina in Asia sudorientale si sta giocando sull’ampiezza del ruolo dell’ASEAN, nato a Bangkok nel 1967 ed attualmente comprendente i dieci stati della regione. Se Washington, contando sull’appoggio di governi alleati quali quello filippino o thailandese, ha tutto l’interesse che la cooperazione nella regione si rafforzi e che l’ASEAN, oltre ad avere un importante ruolo economico, emerga come forte attore politico capace di interloquire alla pari con l’emergente gigante cinese, Pechino vuole l’opposto e, a tale scopo, preme sui suoi “infiltrati” nella regione, in particolare Laos e Cambogia, per assicurarsi che il ruolo dell’ASEAN non vada al di là di una dimensione meramente economica, che oggi si concretizza nella zona di libero scambio ASEAN-Cina nata nel 2010.
SE IL GIOCATTOLO SI ROMPE – Il rischio, quindi, è che le pressioni esercitate dall’esterno sul ruolo dell’organizzazione e sulla stabilità della regione, unite alle crepe che, con la controversia in corso sulle ricche risorse del Mar Cinese Meridionale, si stanno aprendo nelle relazioni di cooperazione tra gli stati membri, mettano in pericolo lo stesso prestigio e capacità di funzionamento dell’ASEAN. Sistemicamente, in un’organizzazione che comprende una pluralità molto accentuata di posizioni politiche e religiose, spazianti dal militarismo birmano, al comunismo laotiano, al miracolo economico di Singapore, passando per il gigante musulmano che è l’Indonesia, la ricerca di una sintonia politica che travalichi i semplici obbiettivi di cooperazione economica che fondarono l’ASEAN delle origini può apparire un disegno troppo azzardato e, probabilmente, nel lungo periodo, logorante per il processo di integrazione regionale. Quale epilogo? Nessuno può dirlo oggi. Certo è, però, che le debacles cambogiane di luglio e novembre rappresentano un rilevantissimo avvertimento da tenere in considerazione.
Vittorio Maiorana