In 3 sorsi – Bucarest rinuncia all’euro e rimanda al prossimo decennio l’adozione, sia a causa dei suoi deficitari fondamentali economici, che delle considerazioni romene sui provvedimenti riservati alla Grecia, dall’Europa e non solo. Opinioni discordanti rispetto a quelle esternate in USA da Mario Draghi, ascoltate e anche applaudite da Christine Lagarde
1. UNA DIFFICILE RINUNCIA – Il 30 settembre scorso – in conferenza stampa – il governatore della Banca centrale della Romania Mugur Isărescu ha dichiarato l’impossibilità di adottare l’euro entro il 2019: «L’obiettivo 2019 per l’adozione dell’euro non è più fattibile […], tecnicamente non più possibile anche se lo si sostenesse ancora politicamente». Per abbandonare il leu – la moneta romena – e passare alla moneta unica europea, sarebbe necessario adottare il meccanismo di cambio European Exchange Rate Mechanism II (ERM II) non più tardi di giugno 2016. Il governatore ha sottolineato la necessità di un piano strutturato in grado di resistere agli stress, invocando una proficua collaborazione tra il Governo Ponta e l’opposizione al fine di organizzarne la stesura.
Nonostante la Romania sia uno degli Stati più poveri del “vecchio Continente” e ancora paghi – a livello economico e finanziario – il suo recente passato di “economia pianificata”, ha più volte dichiarato con forza la volontà di adottare l’euro. Il Primo ministro Victor Ponta, alla fine del 2014, aveva dichiarato che il Paese era sul “sentiero ERM II”, in virtù del rispetto dei “criteri di convergenza di Maastricht”. L’adozione dell’euro avrebbe avuto un effetto “amplificato”, poiché il turno della Romania per il semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione europea (UE) cade nel periodo luglio-dicembre 2019. Alla fine, tuttavia, Ponta ha dichiarato: «per quel che concerne i criteri reali, noi non siamo in grado di resistere alla concorrenza nella zona euro», e ha poi proseguito indicando la necessità di aumentare gli investimenti produttivi – e non di consumo – e di migliorare le infrastrutture e la rete dei collegamenti romeni. Provvedimenti già consigliati nel 2010 dalla Commissione europea non solo alla Romania, attraverso il “Monti report” – il documento consuntivo sullo stato dell’UE richiesto dall’allora presidente José Manuel Barroso all’ex-commissario UE alla Concorrenza Mario Monti.
Su questa scelta potrebbero aver pesato la “crisi greca” e le condizioni dell’accordo “salva-Grecia”. In Romania il salario medio in lei corrisponde a circa di 540 €, da ciò la scarsa attrattiva per l’adesione alla moneta unica, soprattutto in un contesto di ciclo economico negativo. Potrebbero inoltre aver avuto il loro peso – a livello di politica interna – i provvedimenti a carico di Ponta, indagato per conflitto d’interessi, evasione fiscale e riciclaggio per il periodo 2007-2011 – quando esercitava l’attività di avvocato, prima dell’elezione nel 2012 –, che ha portato alle sue dimissioni da presidente del Partito socialdemocratico ma non da Primo ministro.
Fig. 1 – Victor Ponta nel Palazzo Vittoria, residenza ufficiale del Premier e sede del governo romeno, 12 giugno 2014
2. DRAGHI A DIFESA DELL’EURO – Questo rifiuto ha anticipato di poche ore le dichiarazioni del presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi, premiato il 2 ottobre a New York, nel Museo di Storia naturale, con il Global Citizen Award dell’Atlantic Council – noto think tank americano fondato nel 1961 al fine di rafforzare il rapporto tra Usa e Europa. Davanti a una platea di prim’ordine, tra cui l’ex segretario di Stato Henry Kissinger e il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, Draghi ha dichiarato: «il destino dell’Europa è di interesse dei suoi cittadini. Ma è di rilevanza anche per il mondo. L’Unione europea e l’Unione monetaria sono progetti regionali con implicazioni globali. Anche se l’area euro non ha dato un contributo importante alla crescita mondiale negli ultimi sette o otto anni, rappresenta il 17% del Pil del mondo e il 16% degli scambi commerciali globali». Ha inoltre dichiarato: «I progressi raggiunti negli ultimi tre anni per stabilizzare e rafforzare l’area euro sono reali. La crescita sta tornando. E non ci fermeremo fino a quando l’Unione monetaria non sarà completa». Il n.1 della Bce ha quindi provveduto a ricordare alla platea che l’euro è un esperimento che – secondo la sua opinione – ha funzionato e, che quando gli Stati dell’eurozona sono coesi, «possiamo affrontare problemi che ci schiaccerebbero se ogni Paese cercasse di affrontarli da solo».
Il discorso di Draghi ha riscosso gli importanti complimenti del direttore generale del Fondo monetario internazionale (FMI) Christine Lagarde, che ha sottolineato come il «whatever it takes» – pronunciato dall’Italiano nel luglio 2012 a Londra – sia stato il punto di partenza per la “giusta direzione” che Draghi ha dato al cammino dell’euro.
Fig. 2 – Christine Lagarde e Mario Draghi al meeting dei ministri dell’Economia di Parigi, 30 novembre 2012
3. ADESIONE, DISCORSO RIMANDATO – Dalle dichiarazioni del vicegovernatore della Banca nazionale della Romania Bogdan Olteanu, il Paese sarebbe in grado di entrare nell’eurozona nel 2022-2023. Questo anche in virtù del fatto che – in base alle stime della Banca nazionale – il Pil della Romania è in crescita del 3% annuo.
Secondo la Economist intelligence unit – azienda che offre informazioni al The Economist Group, di cui è parte – in Romania vi sarebbe un costante aumento della domanda interna, in ragione e in virtù della riduzione delle imposte indirette, della crescita dei consumi interni e dei salari reali, con quest’ultimi che hanno rispettato le previsioni della Commissione nazionale di prognosi – che aveva calcolato a inizio 2015 il salario netto medio a circa 1750 lei, 98 lei in più rispetto al 2014. La Commissione europea ha stimato che la crescita in Romania dovrebbe confermarsi anche per il 2016 con il Pil al 3,3%, sostenuta dai consumi privati e dalla ripresa degli investimenti. Uno dei punti di forza della Romania è il settore del gas. Aprile 2015 è stato il primo mese in cui è stato consumato solo gas di produzione nazionale. Inoltre, il ministro dell’Energia Răzvan Nicolescu ha dichiarato che dal 2019 sarà raggiunta la totale indipendenza in questo settore, fatto che se confermato potrebbe anche ”interessare” la Russia. Attualmente la Romania soddisfa l’80% del suo fabbisogno energetico attraverso la produzione interna di gas naturale e prodotti petroliferi, risultando così tra gli Stati europei con il più basso tasso di dipendenza energetica dall’estero. Di particolare importanza potrebbero poi risultare le ricerche di nuovi giacimenti nel Mar Nero.
La Romania è un paese che sfrutta l’energia nucleare. Il chief financial officier (c.f.o.) della NuclearElectrica – azienda pubblica dell’energia – Mihai Darie, ha dichiarato che a breve è in programma la ristrutturazione dell’unità I della centrale nucleare di Cernavodă, per mantenerla attiva per ulteriori 25 anni. Il progetto è inoltre solo parte di un più ampio piano di importanti investimenti nel settore dell’energia nucleare.
Infine è un dato notevole e segno del processo di modernizzazione del Paese l’aumento della forza lavoro impiegata nel settore IT (Information Technology).
Claudio Cherubini
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Un chicco in più
Focus sull’euro – I requisiti di accesso all’eurozona sono i “criteri di convergenza di Maastricht”, entrati in vigore nel 1993 assieme al Trattato dell’Unione europea (TUE) o Trattato di Maastricht. È nel Consiglio europeo di Madrid del 15-16 dicembre 1995 che venne deciso di chiamare “euro” la moneta unica, nonostante l’articolo 109 L (123) n.4 del Trattato di Maastricht citasse “l’antenato” dell’euro, la european currency unit (ecu), unità di conto nata nel 1978, che assieme allo European Exchange Rate Mechanism (ERM) formava il Sistema monetario europeo (SME), in vigore dal marzo 1979 al 31 dicembre 1998.
I “criteri” o “parametri” prevedono:
- rapporto deficit/PIL inferiore al 3%;
- rapporto debito pubblico/PIL inferiore al 60%;
- oscillazione dell’inflazione entro una banda ampia l’1,5% della media inflattiva dei tre migliori Stati membri;
- tassi d’interesse a lungo termine non superiori al 2% di quelli degli Stati membri con le migliori condizioni di stabilità dei prezzi;
- nei due anni che precedono la verifica del rispetto dei criteri, non vi debbono essere svalutazioni volontarie della moneta.
Il sistema ERM II ha sostituito lo SME e prevede una banda di oscillazione del 15%. Per restare all’interno si opera con interventi in euro e in altre valute-paniere. Inoltre gli Stati possono richiedere anche un restringimento della banda di oscillazione, la cui approvazione è data dalla BCE e dai ministri dell’Economia dell’eurozona. Accettare di partecipare allo ERM II implica la rinuncia alla svalutazione per i primi due anni. La BCE vigila autonomamente con rapporti biennali, oppure dopo la richiesta di uno Stato terzo. Su proposta della Commissione europea e sulla base delle analisi della BCE, l’Economic and financial affairs council (Ecofin) decide infine se accettare il nuovo potenziale partecipante all’eurozona.
Ad oggi gli Stati dell’UE che hanno adottato l’euro sono: Austria; Belgio; Cipro; Estonia; Finlandia; Francia; Germania; Grecia; Irlanda; Italia; Lettonia; Lituania; Lussemburgo; Malta; Olanda; Portogallo; Slovacchia; Slovenia; Spagna. Gli Stati dell’UE che non hanno adottato l’euro e lo ERM II sono: Bulgaria; Croazia; Polonia; Repubblica Ceca; Svezia; Ungheria. Il Regno Unito non partecipa allo ERM II e mantiene la nota clausola di “opt-out” dalla Unione economica e monetaria (Uem), mentre la Danimarca partecipa allo ERM II con la clausola di “opt-out”. Montenegro e Kosovo non sono membri dell’Ue ma hanno adottato unilateralmente l’euro, mentre in Andorra, Città del Vaticano, Principato di Monaco e San Marino circolano sia l’euro che altre valute.
L’euro è l’applicazione pratica di una teoria nata, paradossalmente, in America: l’area valutaria ottimale (avo). Era il 1961 quando Robert Mundell – economista canadese e Nobel per l’economia 1999 – pubblicò sulla rivista American Economic Review un articolo sulle avo – A Theory of Optimum Currency Areas (volume 51 n° 4). L’argomento è stato ripreso e rielaborato nel 1963 da Ronald Mckinnon (1935-2014) e nel 1969 da Peter Kenen (1932-2012). La teoria si basa sull’analisi costi-benefici di Stati che decidono di adottare una sola moneta, che – notoriamente – esercita per sua natura tre funzioni, a prescindere da ogni teoria o contesto: unità di conto, mezzo di scambio e riserva di valore. Punto nodale dell’avo è la capacità degli Stati di neutralizzare o, almeno, minimizzare gli effetti degli shock asimmetrici – eventi che colpiscono uno dei membri dell’area con intensità diversa dagli altri. A livello generale sono tre le condizioni necessarie e sufficienti dell’avo: una forte apertura al commercio internazionale con un settore export fortemente diversificato; elevata mobilità e flessibilità remunerativa del fattore di produzione lavoro (L); notevoli trasferimenti fiscali intra-area.
Nel corso degli anni, soprattutto dall’inizio della crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo, moltissimi esperti si sono espressi con opinioni divergenti sull’euro, sul fatto che l’UE sia o possa diventare un’avo completa e anche sulle eventuali “colpe” della moneta, in merito al “contagio” subito dall’Europa dalla “scoppio della bolla dei subprime” avvenuto negli Usa. Anche in quest’ultimo si è esteso il dibattito: i Nobel per l’economia Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Milton Friedman (1912-2006) e Paul Krugman, hanno espresso nel corso degli anni vere e proprie condanne sull’euro, mentre Martin Feldstein – docente di economia all’università di Harvard e presidente emerito del National Bureau of Economic Research (NBER) – ha sentenziato che l’euro avrebbe riportato in guerra l’Europa, richiamando di fatto parte di quelle tensioni che già Samuel Huntington aveva individuato in precedenza.
A difesa dell’euro si è schierato prevedibilmente Mundell. Tuttavia non sono mancati economisti americani “euro-favorevoli”, come Mark Weisbrot – co-direttore del Center for Economic and Policy Research (CEPR, Washington D.C.) e presidente dell’organizzazione Just Foreign Policy – e, clamorosamente, Alan Greenspan – dal 1987 al 2006 presidente della Federal Reserve (Fed) –, che nel novembre 2001 dichiarò: «The world can only benefit from the competition». [/box]