Le recensioni del Caffè – Il giornalista Bret Stephens, prestigiosa firma del Wall Street Journal, analizza polemicamente la politica estera dell’Amministrazione Obama, invocando un ritorno al decisionismo diplomatico e all’unipolarismo militare del XX secolo. Ma le sue argomentazioni non appaiono sempre convincenti e obiettive.
“Nessuna superpotenza può trattare la politica estera da spettatore sportivo e sperare di rimanere una grande potenza…Se la storia non è finita – e non lo è – allora gli Stati Uniti non possono andare in vacanza. È chiaro ancora una volta che l’alternativa alla Pace Americana è il disordine globale”. (America in Retreat)
L’America non è in declino, è in ritirata. E lo è da almeno 10 anni. A dirlo è il premio Pulitzer ed editorialista storico del Wall Street Journal Bret Stephens nel suo ultimo lavoro “America in Retreat – The New Isolationism and the Coming Global Disorder”. Il sottotitolo annuncia il contenuto del pensiero di Stephens, già autore di “Has Obama Made the World a More Dangerous Place?”.
Stephens non ama Obama. Soprattutto non ama la sua visione del mondo e del ruolo che gli Stati Uniti dovrebbero occupare in questo mondo a metà tra l’unipolarismo imperfetto e il multilateralismo asimmetrico. Il leitmotiv di America in Retreat è un monito ad invertire la rotta. Abbandonare l’ infausto Obama-pensiero, quella “retreat doctrine” che ha reso il mondo assai più insicuro e che avrebbe prodotto, secondo Stephens, “non solo una ritirata sul piano militare ma un cambiamento nell’ approccio diplomatico, nell’ atteggiamento strategico e forse perfino negli ideali della nazione”.
Fig. 1 – Bret Stephens (a sinistra) discute con il Senatore Lindsey Graham, in corsa per la nomination repubblicana alle presidenziali del 2016
Obama in politica estera ci va “col piede leggero”, enfatizza l’autore, “muovendosi nell’ordine di idee che il containment nel XXI secolo non è verso avversari autoritari come la Cina, la Russia, o l’Iran ma verso gli Stati Uniti stessi“. Di qui i recenti fallimenti della politica estera americana, che Stephens elenca dettagliatamente e con rigore scientifico. Tra i più noti , le deboli risposte alle provocazioni nucleari della Corea del Nord, l’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad in Siria, l’annessione russa della Crimea. L’infelice sperimentazione della strategia del leading from behind nel Nord Africa e in Medio Oriente ha causato vuoti di potere spaventosi che ora l’America si trova costretta ad affrontare nelle peggiori condizioni possibili.
[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]“Da quando Obama è salito alla Casa Bianca nel 2009”, scrive Stephens, […] gli Stati Uniti sono più riluttanti che in passato ad intervenire all’estero,ritenendo più sicura una inazione che un’azione. Di fronte al disimpegno americano gli alleati tradizionali degli Stati Uniti sperimentano opzioni in quello che sospettano stia diventando un mondo post-Pax Americana, incoraggiando quei liberi istinti che Washington ora ha una minore capacità di trattenere rispetto al passato”.[/box]
E ancora, “Obama parla in termini morali di politica estera come se stesse guidando un movimento sociale e non la più grande potenza mondiale.” Si può obiettare che la comunicazione politica (anche quella dei governi) è cambiata. Si può ricordare che Obama nella gestione di alcuni dossier di politica estera (Siria ed Egitto, innanzitutto) ha anteposto a considerazioni morali e umanitarie la coerenza con la sua dottrina del disimpegno o dell’impegno intelligente nella nuova formula dello smart power. Si può ricordare che l’uso dei droni si è notevolmente intensificato sotto la presidenza Obama (Obama ha ordinato oltre trecento attacchi dal 2009).
Fig. 2 – Barack Obama e Hillary Clinton, accusati da Stephens di avere perseguito una politica estera fallimentare negli ultimi anni
Notoriamente vicino agli ambienti politici repubblicani, Stephens tuttavia non dispensa il GOP da critiche e moniti allarmanti. Per lui, “entrambi i partiti nella loro componente maggioritaria non sembrano consapevoli dei rischi dell’isolazionismo americano o dei benefici di una perdurante leadership mondiale Americana”.
La parte più avvincente del libro (e anche quella più criticabile ) è il capitolo 9, “Global disorder“ , dove Stephens traccia uno scenario da disordine globale. Tanto più plausibile, se alla Casa Bianca dovesse salire Hillary Clinton. La Cina si riprende Taiwan, l’Iran costruisce l’atomica, la Russia conquista la Bielorussia e i Paesi baltici, i sauditi invadono il Bahrein e così via.
Stephens tuttavia è ottimista, convinto com’è dell’assoluta necessità che la politica estera americana torni ad essere più hard che soft: “L’America non è in declino. Abbiamo ancora una scelta”. Una scelta che naturalmente gli americani potranno fare alle presidenziali del 2016. Il profilo ideale del prossimo presidente è quello di un leader (leggi neocon) che riconosca il ruolo ineluttabile dell’America come garante dell’ordine mondiale.
Fig. 3 – Soldati americani pattugliano le vicinanze di un villaggio nell’Afghanistan orientale
In fondo la storia della politica estera americana è sempre stata caratterizzata dall’alternarsi di interventismo e isolazionismo, entrambi conditi, a fasi alterne, da pragmatismo ed idealismo. Rispetto a quest’ultima, presunta, connotazione della politica estera americana, Stephens è inequivocabile: non si tratta di esportare i valori democratici americani ma molto più semplicemente di “[…] fare quello che le grandi nazioni hanno sempre fatto: lead”. La Pax Americana, conclude Stephens, è il miglior modo di restaurare l’ordine globale.
Bisogna però che gli Stati Uniti siano disposti a sostenerne i costi. Stephens stima un aumento delle spese militari di circa 150 milioni di dollari. Su questo punto l’autore è durissimo nei confronti dei Tea Party e dei Repubblicani in generale, impegnati “a scrivere la loro retreat doctrine in nome del rigore fiscale”. Se gli Stati Uniti vogliono riportare ordine nel mondo, e non c’è nessun altro al posto loro in grado di farlo, allora è necessario che la prossima Amministrazione americana introduca un approccio di deterrenza piuttosto che di reazione, di prevenzione dei conflitti locali suscettibili di trasformarsi in catastrofi regionali.
Fig. 4 – Un murale in Yemen contro l’uso americano dei droni nella lotta ad Al-Qaeda, che ha provocato molte vittime civili nel Paese arabo
Il libro ha il merito di essere ben scritto, storicamente ben documentato e scorrevole nel portarci indietro con la memoria storica proiettandoci nel contempo nel futuro. L’autore riesce sicuramente nell’intento di spiegarci, in modo adamantino, perché un “nuovo ordine globale” può essere raggiunto solo sotto la leadership a stelle e strisce. Tanto più con il moltiplicarsi sulla scena mondiale di nuovi protagonisti, o presunti tali.
America in Retreat ha anche il merito (non trascurabile rispetto alle tante pubblicazioni sull’argomento) di snocciolare le ragioni del neo-isolazionismo americano illustrando come questo processo possa essere invertito. Tuttavia, non sfugge la parzialità partigiana dell’autore, propria di quella visione del mondo in cui gli “interessi americani” sono il deux ex machina della Storia.
[box type=”shadow” align=”alignright” class=”” width=””][/box]
L’idea di fondo di Stephens è che eccezionalismo americano e interventismo militare siano due facce della stessa medaglia. In merito l’autore trascura, faziosamente, due fattori. Anzitutto, i costi dell’interventismo militare oggi sono poco sostenibili e poco popolari rispetto ai tempi della Guerra Fredda. Dentro e fuori gli Stati Uniti non esistono più le condizioni per un rinnovato unipolarismo made in USA. Per di più Stephens dà per scontato che il mondo con i suoi protagonisti vecchi e nuovi sia disposto ad accettare una riproposizione della Pax americana.
Ma il limite maggiore di American in Retreat sta in una narrazione dell’eccezionalismo americano del Novecento fatta di sole luci. Stephens trascura le ombre, i non pochi errori strategici e le non irrisorie violazioni del diritto internazionale commesse dagli Stati Uniti durante (e dopo) la Guerra Fredda in nome della Pax americana. Rifiuta di riconoscere lo scompiglio che gli Stati Uniti hanno causato in Iraq (“Noi non abbiamo rotto l’ Iraq.”). Tace sulle conseguenze dell’intervento americano in Afghanistan o sull’uso dei droni in Pakistan. Non in ultimo Stephens non sembra considerare affatto il rischio, assai probabile, che la riproposizione della Pax americana possa avere conseguenze più gravi di quelle che si propone di risolvere.
Mariangela Matonte
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Bret Stephens è un giornalista americano, vice caporedattore del Wall Street Journal e commentatore di politica estera. Nel 2013 ha vinto il premio Pulitzer per il giornalismo di commento con la rubrica “Global View” del Wall Street Journal. [/box]
Foto: Defence Images