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Cina: e se Adam Smith fosse stato a Pechino?

Nello speciale sulla Cina, andando oltre la prospettiva occidentale, abbiamo finora offerto analisi critiche sul modello di sviluppo cinese, sulla questione del Tibet e sull’evoluzione dei rapporti della Cina con la Russia e l’Iran. In questo decimo intervento proponiamo una recensione all’ultimo libro di Giovanni Arrighi, Adam Smith in Beijing, uscita nel 2010 sulla prestigiosa rivista Progress in Human Geography.

CHI ERA GIOVANNI ARRIGHI – Giovanni Arrighi – professore di Sociologia alla Johns Hopkins University fino alla sua morte nel 2009 – ha contribuito significativamente alla comprensione dell’evoluzione storica e geografica del sistema-mondo. La qualità del suo lavoro di ricerca, focalizzato sulle cause e conseguenze delle ineguaglianze economico-politiche esistenti tra gli stati-nazione, è ampiamente riconosciuta al livello internazionale e merita certamente una grande attenzione. Adam Smith in Beijing – Lineages of the XXI Century è un libro che offre molte delucidazioni in merito alla più recente riconfigurazione del sistema-mondo. Come sta cambiando la geografia del potere? Arrighi argomenta che nel prossimo futuro saremo testimoni della restaurazione di un mondo più bilanciato tra Oriente e Occidente, così come previsto da Adam Smith più di due secoli fa – in altre parole, si tratterebbe di una nuova convergenza dopo la grande divergenza del XIX secolo (Pomeraz 2000). Dopo decenni di studio sul sistema-mondo, sui cicli del capitalismo e sullo sviluppo cinese, Arrighi sostiene che oggigiorno la Cina rivendica di rappresentare un modello di sviluppo alternativo al capitalismo occidentale e di poter contribuire alla costruzione di un mondo più equilibrato e pacifico. La previsione può sembrare troppo ottimistica; ciononostante è ben fondata e libera da pregiudizi e disinformazione.

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Fig. 1 – La Cina è protagonista di uno sviluppo economico impetuoso

LA STRUTTURA DEL LIBRO – Il libro è diviso in quattro parti che spesso fondono elementi empirici e teorici, sebbene questi ultimi prevalgono nella prima parte. Lo scopo teorico del libro è quello di affrancare il pensiero di Adam Smith dall’ideologia neoliberalista e del laissez faire. Arrighi sostiene che “lungi dal teorizzare un mercato autoregolantesi che lavorerebbe al meglio con uno stato minimalista oppure senza stato … [Smith] presupponeva l’esistenza di uno stato forte che creerebbe e riprodurrebbe le condizioni appropriate per l’esistenza del mercato; che userebbe il mercato come uno strumento effettivo di governo; che regolerebbe le sue operazioni” (pp. 42-43). Egli dimostra ciò attraverso una lettura critica e originale del pensiero di Adam Smith, in particolare delle sue concezioni di uno sviluppo basato sul mercato, comparandolo con le analisi di Marx e Schumpeter. In questo libro l’autore offre dunque un’analisi dell’idea smithiana di sviluppo socioeconomico, enfatizzando la differenza tra un modello di sviluppo “naturale”, interpretato come uno sviluppo di mercato non capitalista (la cui evoluzione si muove dall’agricoltura al commercio estero), ed uno “innaturale”, (ri)concettualizzato come modello capitalista (dal commercio estero all’agricoltura) (capitolo 2). Il primo si sarebbe storicamente materializzato nello sviluppo economico e nella geopolitica pacifica della Cina, mentre il secondo sarebbe riconducibile all’espansione capitalistica europea (e nordamericana) caratterizzata dalle guerre, frutto dell’interazione sinergica tra capitalismo, industrialismo e militarismo, oltreché dal ruolo dominante della struttura finanziaria sulle condizioni materiali della produzione. L’analisi empirica del libro sostiene in profondità questa differenza (si veda anche Arrighi, 1994). Più nello specifico, l’autore si focalizza sulle turbolenze globali durante le due fai dell’egemonia statunitense – la crisi degli anni Settanta e Ottanta, in cui non vi erano concrete alternative, e le recenti strategie Usa incentrate su una “dominazione senza egemonia” (capitolo 7). Quest’ultima sarebbe contraddistinta dalle debolezze degli Usa (si pensi ad esempio alla guerra contro l’Iraq) e dal rinnovato peso della Cina nel suo ruolo globale e regionale. Una tesi chiave è la seguente: finanziando le guerre statunitensi, la Cina sarebbe la vera vincitrice nella guerra “globale al terrorismo” – cioè, in pratica, una guerra progettata per salvare l’egemonia Usa, cercando nel contempo di contrastare la crescita economica della Cina e il suo ritrovato potere. Come avvenuto nelle due guerre mondiali, quando gli Usa in ascesa sostennero le battaglie europee, l’attuale espansione della Cina sta probabilmente contribuendo a determinare il declino statunitense.

adam smith

Fig. 2 – La copertina del libro di Arrighi

LE CONCLUSIONI – Nella parte finale, Arrighi ripercorre attentamente l’ascesa cinese, considerandone sia le caratteristiche storiche, sia quelle più recenti: a questo punto egli dimostra, empiricamente, l’esistenza di una convergenza sostanziale tra il modello di sviluppo cinese e la teoria dello sviluppo di Smith. Malgrado la quasi aderenza tra le trasformazioni economico-politiche in Cina e la concezione di Smith, ciò non significa – continua Arrighi – che le riforme di Deng fossero in alcun modo ispirate dal testo di Smith: esse hanno la loro origine in un approccio pragmatico, ispirato dalle tradizioni cinesi, ai problemi di governance nella Cina dei Qing (p. 368). L’apertura ai capitali europei, americani e giapponesi, a cui sono state applicate varie restrizioni, non è riuscita a produrre, nell’immediato, risultati significativi per la Cina. Ciò nonostante, il Paese ha proseguito nella sua crescita costante, valorizzando sia le competenze di pianificazione al livello nazionale, sia il ruolo dei cinesi residenti all’estero. Nel 1990 i capitali in entrata che fluivano da Taiwan e Hong Kong corrispondevano al 75% degli IDE diretti in Cina, mentre il capitale occidentale aumentò solo alcuni anni dopo (pp. 352, 353). Arrighi mette a disposizione molti esempi ben documentati per assicurare al lettore una comprensione esaustiva delle politiche di mercato cinesi e delle loro peculiarità. Peraltro, egli ci invita a prendere le distanze dalle interpretazioni proposte da David Harvey (“neoliberalismo con caratteristiche cinesi”) e altri studiosi che sono inclini ad associare la Cina con il neoliberalismo (pp. 353-354; su ciò si vedano anche i primi quattro interventi pubblicati per questo speciale). E’ doveroso rifiutare l’idea – sostiene Arrighi – che lo sviluppo guidato da Pechino sia associabile all’adozione dei principi tipici del neoliberalismo. Le trasformazioni cinesi si sono basate su riforme agricole altamente efficaci. Esse sono state caratterizzate da una distribuzione delle terre relativamente egualitaria che, per esempio, ha sostituito le forme di accumulazione tramite espropriazione (Harvey, 2005, 2006) con sviluppi agricoli e industriali decentralizzati – ovvero forme di accumulazione senza espropriazione (Arrighi, p. 361-367). Le terre sono state redistribuite, permettendo così ai contadini di non perdere il controllo dei loro mezzi di produzione ed essere coinvolti, simultaneamente, in altre attività rurali non agricole. Per di più, gli sviluppi cinesi non sono stati guidati dal capitale straniero, che è intervenuto solo in una fase successiva, bensì da una felice convergenza tra l’espansione del mercato interno e la mobilitazione produttiva di una forza lavoro qualificata (in termini di salute, istruzione e capacità di autodisciplina).

MINORI VULNERABILITÀ – Ciò è confermato anche dalla più recente crisi finanziaria e dalle sue manifestazioni geo-economiche. In questo caso possiamo facilmente notare che nonostante il crescente livello di interdipendenza globale, i Paesi occidentali hanno mostrato molte più vulnerabilità rispetto alla Cina, che ha mantenuto un sistema bancario controllato dallo stato, forti politiche monetarie e un livello di attività speculative mantenutosi su livelli bassi fino a poco tempo fa (nonostante il crollo della borsa di Shanghai avvenuto a luglio scorso abbia sollevato diversi campanelli d’allarme).

Fabio Massimo Parenti

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Un chicco in più

Ecco alcuni riferimenti bibliografici:

Arrighi, G. 1994: The Long Twentieth Century. London: Verso.

Harvey, D. 2005: A Brief History of Neoliberalism. New York: Oxford University Press.

Harvey, D. 2006: The Spaces of Global Capitalism. London: Verso.

Pomeraz 2000: The Great Divergence. China, Europe and the Making of the Modern World Economy. Princeton University Press

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Foto: Wolfgang Staudt

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Fabio Massimo Parenti
Fabio Massimo Parenti

Ho avuto la fortuna di nascere a Roma, dove vivo da quasi 40 anni. Nel corso del tempo l’amore per la mia città si è esteso ad altri luoghi e paesi, come il Vietnam e la Cina. L’impegno e la passione costante per lo studio – insieme al fondamentale sostegno della mia compagna Ferdinanda e, più recentemente, dei nostri meravigliosi figli, Priscilla e Diego – mi hanno sempre accompagnato nel percorso scientifico-professionale. Oggi Professore associato in Geografia, sono laureato in Geografia all’Università la “Sapienza”, ho acquisito i titoli di Dottore di ricerca in Geopolitica e Geoeconomia all’Università di Trieste, di cultore della materia in Geografia Politica all’Università del Molise e di Affiliate Lecturer al Marist College di New York.

Attualmente insegno The Global Political Economy, Globalization, Global Financial Markets, China’s Development e War and Media presso l’Italian International Institute “Lorenzo de ‘Medici” e tengo lezioni e seminari presso varie sedi accademiche e istituzionali. Infine, borse di studio post-laurea e progetti di ricerca nazionali hanno arricchito le mie esperienze di ricerca su tematiche di geografia economico-politica e geopolitica.

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