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Europa, Terrorismo, Fanatismo: Anno zero, giorno uno

Dopo Parigi, analizziamo quanto accaduto con una serie di articoli. Partiamo oggi da alcuni temi ricorrenti (dai servizi segreti francesi a possibili risposte interne all’Islam) cercando di spiegare perché dovremmo su alcune cose proprio ricominciare da capo, cambiando la nostra strategia, osservando quali errori abbiamo commesso (per non ripeterli) e quali risposte è possibile dare

 

(A. R.) Sabato, nel mio editoriale sui fatti di Parigi, ho chiesto alla redazione: aiutiamoci a capirne di più insieme. Ho scritto a tutti di farmi avere poche righe su alcuni dei 7 punti proposti nell’articolo, ma ho fatto l’errore di non specificare, e la situazione mi è sfuggita di mano. Mi aspettavo 10mila battute da raccogliere in un pezzo, ne ho tra le mani quasi 100mila. Tutte scritte col cuore, con passione, talvolta con tristezza o rabbia, con idee talvolta anche differenti tra loro, ma con grande lucidità, e con un filo rosso che vuole aiutarci ad analizzare insieme cosa è successo, cosa aspettarci ora, come occorrerebbe muoversi, quali riflessioni sottolineare nel fiume di parole di questi giorni. Anche voi lettori ci avete accompagnato in questi giorni con tanti commenti (tutti civili e pacati, e non era scontato): grazie, stiamo facendo tesoro di tutti e affronteremo i vari punti che ci sottolineate. Per tutta la settimana vi proporremo diverse considerazioni della nostra redazione e di alcuni membri del nostro Comitato Scientifico. Oggi iniziamo da un articolo di Marco Arnaboldi, che con un pezzo di impatto e provocatorio, smonta con immagini forti molti nostri pre-concetti e pre-giudizi sull’analisi dei fatti di Parigi (i servizi segreti francesi hanno davvero sbagliato tutto? Dobbiamo attenderci una risposta all’interno dell’Islam?), chiudendo con una proposta concreta. 

 

VECCHIE CATTIVE ABITUDINI – Eccoci qui, noi europei, che corriamo nel vuoto confusi e affannati, ma ancora convinti dei nostri vecchi mezzi, come Wile Coyote un attimo prima che guardi giù e si accorga che la roccia è già finita da un pezzo. Metto le mani avanti fin da subito: chi è abituato a miei pezzi tecnici e specialistici, oggi verrà deluso. Non c’è spazio per la razionalità analitica. Non ha senso impiegarla ora, per spiegare quanto successo a Parigi. Gli attacchi, la loro dinamica, il loro tempismo,persino la scelta dei luoghi esulano da quelle macro-tendenze e schemi decisionali che noi studiosi di terrorismo cerchiamo ogni giorno di perfezionare e verificare tramite analisi empirica. Si leggono supposizioni assurde: “l’attacco è avvenuto oggi perché ieri i Curdi hanno riconquistato il Sinjar”, o perché “i miliziani vogliono vendicare la morte di Jihadi John!”; come se l’attacco fosse stato pensato, deciso e perpetrato in giornata. Ancora: “Lo Stato Islamico attacca la Francia perché ha una politica estera aggressiva in Maghreb, Sahel e Levante”; come se l’attacco avesse davvero bisogno di una causa, di un movente. Può darsi, non lo possiamo escludere a prescindere, ma è tutto troppo semplice, banale.

UN CAMBIO DI PROSPETTIVA – È forse una novità che la dottrina qaidista e post-qaidista miri a distruggere l’Europa? No, certamente no. Qual è la novità, dunque? La novità è il fatto che adesso i jihadisti hanno imparato a farlo davvero.  Non in maniera omogenea: in alcuni luoghi più che in altri. La Francia, per esempio, offre un florido milieu jihadista: circa 4.000 individui, stimano le autorità, un numero enorme a confronto degli appena 200 italiani. Aggiungiamo questo dato: le intelligence più evolute, per adoperare un controllo assoluto su un singolo individuo, 24 ore su 24, devono impiegare almeno 20 agenti (si parla di semplice sorveglianza fisico-telematica, senza forze di intervento). Basta questo per scoprire che i dipartimenti di sicurezza, ontologicamente, non sono adatti a fronteggiare il fenomeno nella sua integralità. È quindi sterile incolpare i servizi segreti, così come non ha senso utilizzare approcci pragmatici di intensificazione dei controlli in risposta al fenomeno. Lo provo a spiegare con una metafora più efficace: per sedare l’incendio di un palazzo, noi europei stiamo chiedendo che si sputi più forte.

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ALLA RICERCA DI AIUTO – Chi ha preso coscienza di questa incapacità strutturale da parte dell’Europa a comprendere il fenomeno, assume di solito due atteggiamenti, fra loro opposti.  Da un lato si assume uno stile comportamentale compulsivo e maniacale, richiedendo aiuto ciecamente, a personaggi più o meno improponibili, intessendo e propugnando alleanze disastrose, armando e sostenendo formazioni fallimentari per natura. Ma anche, dando ennesimo sfoggio di cecità analitica, chiedendo all’ambiente islamico di condannare fortemente il fenomeno terrorista (come se all’interno della locuzione “Stato Islamico”, fosse “islamico” la parola chiave e non “Stato”), una soluzione che aborro da tempo: in linea generale, nessuno è tenuto a parlare a nome di qualcun altro. Nessuno. Così come non ci è mai passato per la testa di dire che il Lord Resistance Army (un movimento di sovversione ugandese), o gli estremisti dell’Anti-Balaka (ombrello di insorgenti centrafricani) o del MEND (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger) non rappresentino la religione cristiana, per i musulmani, giustamente, il primo pensiero non è condannare il terrorismo come anti-islamico. Soprattutto, per i musulmani: fedeli di una religione priva di un vertice, di un portavoce unico. Fedeli di una religione estremamente frammentata, in cui ogni setta è fermamente convinta della proprio legittimità e punta a emanciparsi il più possibile, tramite usanze, nomi, riti, dal resto del mainstream. Siamo noi occidentali, invece, che in un tentativo di ordinare e sistematizzare il caos, ridurre il grado di entropia nella comprensione del mondo, amiamo creare gruppi e famiglie, armonizzarli tramite insiemi, sottoinsiemi, iperonimi, iponimi, salvo poi stupirci e rimanere delusi quando vediamo che i modelli non coincidono con la realtà, che i comportamenti praticati dagli attori non rispecchiano la trama prevista. Ma non finisce qui: se da un lato chiediamo ai musulmani di parlare in nome di qualcosa che non vogliono rappresentare, dall’altro stiamo anche, ironicamente, chiedendo loro di adottare lo stesso strumento di cui si avvalse storicamente la retorica kharijita e oggi quella jihadista: il takfir, ossia la condanna di miscredenza, fra le più pericolose armi del fondamentalismo. Persino i più recenti studi di counter-radicalization hanno ormai evidenziato come la radicalizzazione non sia una intensificazione del proprio vissuto religioso, bensì una forma di conversione. Bisogna quindi tracciare delle linee nette di demarcazione, fra culti e culture (quella subcultura jihadista di cui parla Thomas Hegghammer) in quanto esperienze diverse, prive di un rapporto evolutivo.

 

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ALLA RICERCA DI COLPE – Il secondo stile comportamentale è depressivo e auto-punitivo. Tanto pericoloso quanto il primo, qui si ritrovano coloro che vedono come fallimentare ogni strategia messa in atto dall’Occidente e si sentono incapaci di qualsivoglia azione, convinti che i costi superino sempre i benefici. Non parliamo solo delle Guerre del Golfo e degli altri interventi moderni: persino la subalternità culturale ed economica, il colonialismo e la decolonizzazione vengono additate come cause ultime della rabbia araba e della risultante tensione europea. Generalmente, ricordo a questi illuminati pensatori che aumentando il continuum storico troviamo molte altre “cause” d’odio: le Crociate, gli antichi Romani…! Ma guai a sorridere: paradossalmente, è proprio a questo che la retorica jihadista si appella: la conquista di Roma, la lotta contro i Salibiyyin (Crociati) sono temi onnipresenti nei testi di al-Qaida tanto quanto in quelli dello Stato Islamico e di altre fazioni meno conosciute. Noi, adottando lo stile auto-incolpante, in un rapporto di comunicazione totalmente sbilanciato a favore dei fondamentalisti (ci arrivo fra un attimo), crediamo, rincariamo e auto-avveriamo le loro profetiche visioni di vendetta storica. La cosa più buffa è che in tale stile comportamentale ritroviamo molti auto-proclamatisi esperti di geopolitica che commettono il più basilare degli errori analitici della disciplina: si dimenticano della geostoria, delle sue macro-tendenze ricorrenti, e riportano gli avvenimenti a una dimensione ideologica, dottrinale. Ma non solo: molto spesso si dimenticano anche della semplicissima fisica dei corpi. Seppure sia chiaro che nel mondo dei balocchi è possibile fare operazioni militari senza scatenare movimenti di sovversione e insorgenza, nella realtà questo non è possibile. Ogni volta che applichiamo una forza contro un corpo, come succede con un intervento militare, fisicamente si scatenerà un vettore opposto al nostro, chiamato normale, di segno contrario. Mutilarci quindi della possibilità di fare operazioni militari solo perché in passato abbiano avuto effetti negativi o perché abbiamo paura di ritorsioni, è un comportamento infantile e figlio di visioni utopiche.

SIAMO PARTE NECESSARIA DEL SISTEMA ISIS, QUINDI LO POSSIAMO CAMBIARE – Non voglio dare qui una risposta di taglio operativo su come fare counter-insurgency (se è quello che cercate, trovate su queste pagine molti articoli in cui parlo di questo). Voglio provare invece a far riflettere sulla risposta politica da dare al fenomeno del terrorismo di matrice islamista in sé. Un fenomeno che ci vede in posizione di disagio assoluto. Basta pensare al rapporto di comunicazione fra l’Occidente e lo Stato Islamico oggi. Un Occidente che si rifiuta di parlare con il fanatismo, di cui ne è ripugnato e spaventato; eppure, è obbligato a farlo per provare a combatterlo. Dall’altra parte uno Stato Islamico che dice di essere disgustato dall’Occidente, lo minaccia e lo attacca, ma di fatto ha un desiderio enorme di dialogare con esso e lo fa in continuazione, avendo raggiunto abilità comunicative sensazionali. Anche qui, ricorro a un’immagine del tutto fantasiosa (i più realisti mi dovranno scusare) per rendere meglio il concetto: se Ban Ki-Moon invitasse Abu Bakr al-Baghdadi a parlare al Palazzo di Vetro, probabilmente la sua risposta sarebbe la seguente:  “Le Nazioni Unite sono un simbolo di schiavitù e sfruttamento americano-sionista, un giorno con il volere di Iddio l’Altissimo le distruggeremo…ma intanto vi ringrazio per l’offerta, quando si comincia?”. Lo Stato Islamico trova nell’Occidente la sua ragione d’essere. Più parla con noi, più acquista legittimità. Il suo desiderio ultimo e inconfessabile è di diventare un attore del sistema internazionale formalmente riconosciuto. Un rapporto di forza tanto sbilanciato, fra due interlocutori di cui uno terrorizzato che non ha voglia di parlare e l’altro pieno di vigore che guida la conversazione con totale nonchalance,  è il segno più evidente del nostro fallimento. Basta pensare alle parole che utilizziamo oggi: si parla di Califfo, miscredenti, shari’a, jihad, apostati, giorno del giudizio, ecc…Tutte parole che IS è riuscito a fare entrare nel nostro vocabolario.

PROPORRE LA NOSTRA ETA’ DELL’ORO – E allora è proprio qui che tocca a noi, è qui che si gioca la battaglia più profonda del conflitto, quella più scivolosa: non militare, ma dottrinale. L’Occidente deve recuperare la sua abilità di dare i nomi alle cose, di creare narrative diverse (contro-narrative se necessario), imporre termini, distruggere concetti. E infine, giocare le sue carte migliori: la via dell’Islam europeo, ad esempio. Personalmente, sono fermamente convinto che l’unica risposta politica efficace, di lungo termine, che sarà in grado di saziare la fame dell’ambiente fondamentalista, di zittire le sue domande politiche più profonde, non può che essere una via europea all’Islam, perché è l’Europa il teatro in cui si gioca il futuro del dialogo, perché l’Islam qui è necessariamente in cerca di confronto, e quindi permeabile. Una battaglia, questa, che stiamo perdendo venti a zero, avendo anzi lasciato che proprio l’Europa diventasse fucina di radicalismo, avendo dato rappresentanza politica e riconoscimento ufficiali a gruppi mascherati di buonismo (Fratelli Musulmani e Hizb al-Tahrir su tutti) che non abbiamo saputo riconoscere per tempo. Ma la sfida ora non può più essere sottovalutata, e sono le ultime occasioni per fare del nostro meglio, per mostrare al mondo modelli di integrazione efficaci, di dialogo, di meticciato culturale. Riconoscere la valenza puramente politica del fenomeno con cui abbiamo a che fare, e saper trovare soluzioni che siano islamiche per natura (che sappiano proporre un’alternativa a quell’età dell’oro cui il fanatismo mira), è l’unica, vera risposta di lungo termine (e quindi in ultima analisi efficace) che l’Europa ha il dovere di trovare.

Marco Arnaboldi

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Un chicco in più

L’autore di questo articolo ha contribuito a un libro, risultato del progetto di ricerca della Fondazione Internazionale Oasis “Conoscere il meticciato, governare il cambiamento”, dedicato proprio all’engagement politico di alcuni gruppi fondamentalisti islamici, e alla ricerca di modelli di convivenza, di integrazione, di meticciato culturale fra Occidente e Islam. Clicca qui per comprare “La Galassia Fondamentalista: tra jihad armato e partecipazione politica”.

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Foto: airlines470

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Marco Arnaboldi
Marco Arnaboldihttp://www.jihadistanblog.blogspot.com

Ventiquattro anni, saronnese, mi sono laureato in Relazioni Internazionali (studiando anche la lingua araba) presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi sui combattenti europei impegnati in Siria. Sono stato Visiting Student a Siviglia e a Gerusalemme, attualmente frequento una specialistica in Politiche Internazionali. Ho lavorato come analista presso un’azienda di security consultancy, oggi collaboro con alcuni istituti di ricerca e diverse testate italiane. I miei temi di analisi sono il Medio Oriente, l’Islam politico, il jihadismo e l’home-grown terrorism. Da ultimo, curo un sito sul Jihadismo targato IT (www.jihadistanblog.blogspot.com).

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