Cadono ancora nel vuoto i tentativi di negoziato sulla questione honduregna. Tra i due litiganti, il presidente deposto Zelaya e quello de facto Micheletti, però, si frappone l’imminenza delle elezioni
MANCA L’ACCORDO – Secondo alcuni poteva essere la volta buona: e invece, sul più bello, la trattativa è saltata ancora una volta. In Honduras, l’intricatissimo nodo legato al contrasto istituzionale tra Manuel Zelaya, il presidente deposto dal colpo di Stato del 27 giugno scorso, e Roberto Micheletti, subentrato al suo posto in quanto presidente della Camera (secondo quello che prevede la Costituzione nazionale), non è ancora stato sciolto. L’ultima tornata di negoziati condotti in seno all’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) tra le delegazioni dei due contendenti e con la mediazione del Presidente del Costa Rica Óscar Arias è giunta ad una nuova situazione di stallo. Infatti, nonostante entrambi riconoscano che si faranno da parte a gennaio, quando cioè il nuovo Presidente che sarà eletto dal voto programmato per il prossimo 22 novembre entrerà in carica, le modalità con cui intendono farlo sono diverse. Zelaya chiede di essere reintegrato nelle sue funzioni, Micheletti non è d’accordo e punta a terminare il mandato.
TRA RAGIONE E VIOLENZA – Mentre Zelaya chiede che sul suo ritorno al potere si pronunci il Parlamento, Micheletti sostiene invece che tale parere venga espresso dalla Corte Suprema dell’Honduras. Le ragioni di “Mel” (questo il soprannome del leader deposto, che continua a trovarsi nell’ambasciata brasiliana a Tegucigalpa) sono chiare: ottenere un voto dall’organismo che è espressione della volontà popolare sancirebbe la legittimità democratica del suo status presidenziale. Dall’altra parte, Micheletti invoca il rispetto delle norme costituzionali: secondo la tesi del Partido Liberal, Zelaya avrebbe attentato ripetutamente alla democraticità delle istituzioni e la sua deposizione sarebbe stata dunque un atto legittimo rispettoso della prassi costituzionale. Il pericolo, ora, è che i ripetuti fallimenti della mediazione portino i sostenitori dei contendenti a ricorrere all’uso della forza. Alcune fonti sostengono che il Venezuela offrirebbe appoggio economico e materiale, in termini di armi, a soggetti vicini a Zelaya. Nei giorni scorsi, invece, sono stati assassinati un nipote di Micheletti e il colonnello Jiménez (anch’egli vicino al presidente de facto), dirigente dell’Industria Militare.

PROSPETTIVE E IL RUOLO DEGLI USA – La disputa tra Zelaya e Micheletti potrebbe però terminare tra un mese, quando si svolgeranno le elezioni presidenziali. È presumibile pensare che entrambi potrebbero non avere più voce in capitolo, in quanto il voto si svolgerà sotto i riflettori di organizzazioni regionali e internazionali volti a garantirne la correttezza. Le urne potrebbero dunque decretare la fine di questo singolare scontro istituzionale, sempre che le due parti non decidano di fare ricorso alla forza come extrema ratio. In tutta questa situazione, merita di essere discusso anche il ruolo degli Stati Uniti. Tradizionalmente interventisti nelle vicende continentali, in osservanza ai dettami di politica estera formulati ancora nell’800 dalla “dottrina Monroe” e dal “corollario Roosevelt”, questa volta Washington si è mantenuta su posizioni caute. Il presidente Obama, che ha sempre offerto sostegno a Zelaya, nonostante questi fosse alleato del “nemico” Chávez, ha incontrato l’opposizione del Partito Repubblicano e ha fatto addirittura parlare di una “deriva a sinistra” degli USA. In realtà, non sembra niente di tutto ciò: più probabilmente, Obama ha deciso di adottare anche nelle vicende continentali un approccio più multilaterale, dettato anche dalla necessità di fare “economia” per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse militari, e di affidarsi ad un interlocutore fidato ed autorevole come il Brasile.
Davide Tentori 27 ottobre 2009 redazione@ilcaffegeopolitico.it