In 3 sorsi – Il 2015 ha rappresentato uno degli anni più complessi per il progetto europeo. Le quattro richieste del Premier David Cameron cercano la negoziazione di punti chiave nel percorso verso il referendum. La domanda che c’è da porsi, a questo punto, é se questi sviluppi siano davvero negativi per l’interesse dell’Unione.
1. DIVERSE PROSPETTIVE – La potenziale fuoriuscita della Gran Bretagna (il cosiddetto Brexit) ed una Europa sempre più a geometria variabile mettono a dura prova il progetto di integrazione europea. Tuttavia, se da un lato il Referendum programmato per giugno 2016 potrebbe segnare la possibile uscita del Regno Unito e generare effetti nefasti sul progetto di integrazione europea, dall’altro lato i fautori di una Europa più unita sognano una ulteriore spinta verso l’integrazione senza i britannici e soprattutto senza vincoli o rallentamenti. Anzitutto c’è bisogno di un passo indietro per delineare la storia dell’integrazione britannica e dell’UE e capire quali siano i punti critici. Primo evento: il Governo francese guidato dal generale De Gaulle attua la “Politique de la chaise vide”, ossia una manifesta assenza durante il dibattito riguardo i negoziati per l’ingresso del Regno Unito (rei di rallentare l’integrazione europea per fare accedere un Paese strettamente legato agli Stati Uniti). Le trattative riprenderanno solamente nel 1966, anno del compromesso di Lussemburgo. Il Regno Unito infine entrerà a far parte della Comunità Economica Europea (CEE), con la consapevolezza che il progetto (inizialmente economico) sia destinato ad una maggiore integrazione politica e possibilmente di difesa comune. Il secondo periodo da considerare è quello dell’amministrazione della “lady di ferro” Margaret Thatcher – premier dal 1979 al 1990 – la quale richiede a gran voce la restituzione delle tasse pagate dal Regno Unito – «I want my money back» – , perché ritenute troppo elevate rispetto ai benefici ottenuti (principio del giusto ritorno). Comprensibilmente, i tagli alla spesa pubblica e le privatizzazioni attuate in quegli anni mal si coniugavano con la complessità burocratica europea e con una legislazione che penetrava direttamente all’interno della legislazione statale. Elementi, questi, che ritroveremo nelle proposte di David Cameron.
Fig. 1 – Per Cameron il bicchiere dei rapporti con l’UE è ora mezzo pieno: ma siamo sicuri che l’esito del referendum non glielo farà andare di traverso?
2. UN MARE DI DISTANZA? – Nonostante questi due episodi facciano parte di tempi andati, ci consentono di trarre tre lezioni. Anzitutto, i dubbi sul ruolo britannico sono sempre esistiti. In secondo luogo, vi è un problema “sistemico”, dato dalla visione liberale del Regno Unito, il quale punta dal 1979 a diminuire le tasse, ridurre il ruolo dei sindacati rispetto a molti vicini europei, incoraggiare la deregulation finanziaria e provare a mantenere la City come il centro finanziario europeo. Il terzo fattore riguarda l’aspetto geografico del Paese, il quale, a differenza di Germania e Francia su tutte, costituisce un corpo a sé, diviso geograficamente da pochi chilometri di mare; questo si traduce in una visione completamente diversa sia a livello culturale (sviluppando un pensiero proprio più indipendente rispetto al continente europeo), sia riguardo la protezione delle barriere comuni e le prospettive militari. Il contesto più recente che porta al refendum vede un Governo conservatore eletto nel 2015 e un premier – David Cameron – il quale, promettendo la negoziazione di condizioni più vantaggiose per rimanere all’interno dell’UE, sembra cercare la conferma dell’elettorato. La scelta economica è da analizzare, considerando in primis che circa il 50% delle esportazioni del Paese sono dirette all’Eurozona, e una possibile uscita non limiterebbe né le spese di contribuzione (sostenute ad ogni modo da alcuni Paesi nordici come la Norvegia), né i vincoli imposti alle esportazioni a livello qualitativo, visto che queste dovrebbero comunque rispettare gli standard UE. Ad ogni modo, c’è da sottolineare come la spinta di un partito di estrema destra come UKIP (3,8 milioni di voti), scettico nei riguardi dell’Eurozona, abbia influenzato fortemente le promesse elettorali di Cameron. Inoltre, non dimenticando il recente passato e il referendum del 2014, la Scozia, più europeista dei vicini inglesi, potrebbe reagire a questa fuoriuscita, spingendo per un ulteriore referendum o, nel migliore dei casi, stringendo ulteriori accordi bilaterali con l’Unione.
Fig. 2 – Il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il premier britannico Cameron.
3. LA RICHIESTA – Nel dettaglio, cosa ha richiesto Cameron per appoggiare la campagna del sì riguardo la permanenza nell’Unione? Bisogna precisare che, nel caso in cui si trovi l’accordo con le istituzioni europee riguardo i quattro punti, il premier ha promesso un atteggiamento più favorevole nei confronti della permanenza nell’Unione.
- Mantenimento della propria governance economica, mantendendo la sterlina e preservando i propri mercati finanziari;
- Ripresa dell’economia europea attraverso il miglioramento della competitività. Si tratterebbe di un rapporto diverso con la burocrazia europea, che consentirebbe di valutare caso per caso il recepimento delle leggi provenienti da Bruxelles;
- Nessun obbligo di integrazione ulteriore a lungo termine;
- Diminuzione dei benefici sociali per i migranti, concedendo aiuti solo a coloro i quali risiedono nel Regno Unito da almeno un determinato periodo di tempo.
Se la ripartenza economica trova vari sostenitori, l’ultimo punto sembra essere il più complesso, perché andrebbe contro uno dei principi chiave della strategie europea: la libera circolazione delle merci e delle persone. Il futuro dell’Europa rischia di giocarsi su delle considerazioni più ideologiche che economiche. Se da un punto concreto la fuoriuscita del Regno Unito sembrerebbe un argomento incerto, un‘apertura al dibattito potrebbe significare una distruzione dell’Unione, portando i restanti 27 Stati a richiedere leggi su misura, o ancora peggio a fuoriuscite e risalita dei partiti estremi. Attualmente, la relazione EU-UK appare stabile considerando le 4 clausole di opt-out (rinuncia al trattato di Schengen, alla zona Euro e alla carta dei diritti e regime particolare su Giustizia e Affari Interni), che garantiscono particolari concessioni. In caso di fuoriuscita, potrebbero seguire negoziati meno favorevoli. Nel frattempo Cameron prosegue gli incontri europei. Dal punto di vista esterno c’è una alta possibilità che il Fronte Nazionale in Francia cavalchi l’onda per le elezioni del 2017 nel caso in cui i britannici dovessero uscire, e a quel punto sarebbe complicato chiarire i vantaggi del rimanere in Europa. In conclusione, siamo sicuri che questa integrazione à la carte sia la strada giusta? Quando la realtà europea necessita più integrazione (militare e politica), quale diventa il ruolo dei paesi contrari ad aumentare le spese in determinati ambiti? La questione non si ferma al “Brexit”, ma riguarda tutto il futuro dell’Unione, anche per prospettive più favorevoli all’integrazione anziché alla disintegrazione.
Dario Trombetta
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
“Crise de la chaise vide”: Durante le negoziazioni per l’ingresso del Regno Unito nell’allora CEE, tra il giugno 1965 e il gennaio 1966 la delegazione francese non si recò a Bruxelles. [/box]
Foto: The Prime Minister’s Office
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Foto: dougsmi