I leader di Stati Uniti e dei Paesi membri dell’ASEAN si sono riuniti lo scorso febbraio nella splendida cornice del Sunnylands Resort di Rancho Mirage, in California, per una due giorni di summit. Tra i temi presenti sul tavolo delle discussioni – dall’economia al rispetto dei diritti umani fondamentali – il vertice multilaterale ha riservato ampio spazio alla scottante questione delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale
DALLA RELATIONSHIP ALLA PARTNERSHIP STRATEGICA – Mentre il secondo mandato presidenziale di Barack Obama sta volgendo al termine, la più grande eredità politica lasciata dalla sua amministrazione, il Pivot to Asia, si compone di un ulteriore e fondamentale tassello.
Tra il 15 e il 16 febbraio di quest’anno si è svolto presso il Sunnylands Resort di Rancho Mirage, in California, il Summit USA-ASEAN, appuntamento ufficiale che riveste un’importanza storica per tre motivi. In primo luogo, si tratta del primo vertice organizzato su suolo statunitense. Mai prima d’ora, infatti, i capi di Stato e di Governo dei dieci Paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) si erano ritrovati tutti insieme al cospetto dell’inquilino della Casa Bianca al di fuori dei tradizionali forum di dialogo asiatici quali l’APEC o l’East Asia Summit. In secondo luogo, l’ASEAN si è presentata al Sunnylands Resort in una nuova veste istituzionale, dopo aver dato ufficialmente avvio nel novembre scorso al processo di costituzione delle ASEAN Communities, i pilastri fondativi di un’organizzazione interstatale rinnovata e dinamica volta ad assicurare alla regione del Sud-est asiatico una maggiore integrazione su tre distinti ambiti di cooperazione: economico, politico e socio-culturale. Da ultimo, il Summit ha elevato formalmente la natura dei rapporti tra Stati Uniti e Paesi ASEAN da pura e semplice relationship fondata sulla cooperazione economica ad autentica partnership strategica, rispetto alla quale il Governo di Washington avrà d’ora in avanti voce in capitolo nelle questioni di sicurezza che minacciano o rischiano di minacciare i Paesi membri dell’Associazione. A tal proposito, l’assistente del Segretario di Stato per gli affari dell’Asia-Pacifico, Daniel Russel, ha parlato di «elevation of the U.S.-ASEAN relationship», senza però chiarire quali siano gli obiettivi e le specifiche aree di intervento che il Presidente Obama intende valutare nei prossimi mesi.
Certo è che l’amministrazione americana ha dato ampio risalto all’Associazione negli ultimi otto anni, dimostrando quanto sia essenziale per gli interessi statunitensi nel Pacifico ritrovare una certa sinergia con i leader del Sud-est asiatico e bilanciare così l’influenza della Repubblica popolare cinese (RPC) nella regione. Nel luglio 2009, gli Stati Uniti sono stati il primo Paese ad aver firmato il Trattato di amicizia e cooperazione nel Sud-est asiatico del 1976, da quando nel 1987 è stata prevista la possibilità per i membri non-ASEAN di aderirvi. Inoltre, Obama ha nominato il primo rappresentante permanente USA presso la sede del Segretariato dell’Associazione a Giacarta. Piccoli passi che però denotano il crescente interesse di Washington per l’area.
Fig. 1 – Il Presidente americano Barack Obama apre ufficialmente il vertice di Sunnylands in presenza dei capi di Stato e di Governo dei 10 paesi ASEAN, 15 febbraio 2016
LA DICHIARAZIONE DI SUNNYLANDS – Durante l’atteso vertice di Sunnylands si è discusso di tre questioni principali, ognuna delle quali è stata trattata in altrettante sessioni di lavoro ad hoc: economia e sviluppo nella prima sessione; diritti umani e democratizzazione nella seconda; politica estera e di sicurezza in un pranzo informale a conclusione del Summit. I colloqui a livello multilaterale hanno prodotto un comunicato finale – la Dichiarazione di Sunnylands – composto da 17 punti, gran parte dei quali mutuati dal Plan of Action 2016-20 sottoscritto da Stati Uniti e ASEAN a Kuala Lumpur nel novembre scorso. Oltre all’onnipresente principio del rispetto dell’indipendenza, dell’integrità e della sovranità territoriale degli Stati molto caro alle nazioni ASEAN, la Dichiarazione enfatizza la necessità di perseguire un modello economico bilanciato, sostenibile e incentrato sul libero scambio, in modo da rendere più competitive le economie della regione, traendo talora profitto dai vantaggi derivanti dall’adesione alla Trans-Pacific Partnership (TPP). Opportunità che, per la verità, buona parte degli Stati ASEAN ha colto al volo (vedi Un chicco in più). L’ASEAN è il quarto più grande partner commerciale degli Stati Uniti (l’interscambio in beni e servizi nell’anno 2015 ammonta a 227 miliardi di dollari, in calo rispetto all’anno precedente), nonché destinazione tra le più apprezzate dagli investitori statunitensi. Al fine di dare ulteriore impulso all’integrazione economica nella regione, il Presidente Obama ha annunciato l’iniziativa chiamata US-ASEAN Connect, un network di tre hub strategici (c.d. contact centers) siti nelle città di Bangkok, Giacarta e Singapore attraverso cui mettere in contatto investitori, imprenditori e uomini d’affari americani direttamente col tessuto produttivo del Sud-est asiatico in quattro grandi settori dell’economia: infrastrutture, trasporti, energia e telecomunicazioni.
Nei paragrafi successivi, la Dichiarazione di Sunnylands si sofferma sulle questioni di sicurezza tradizionali (lotta al terrorismo) e non tradizionali (cambiamento climatico e cybersecurity) e riconosce la centralità dell’ASEAN nel processo di cooperazione regionale nell’Asia-Pacifico. Tuttavia è sui diritti umani che essa innova rispetto ai precedenti documenti ufficiali. Tra i punti contenuti nel comunicato congiunto trova spazio, infatti, la promozione e la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali: nel corso della seconda sessione, gli Stati Uniti hanno riservato particolare attenzione alle situazioni interne della Thailandia e del Myanmar, auspicando che la giunta militare guidata dal generale Chan-o-cha possa molto presto ripristinare lo stato di diritto nel Paese, e – nel secondo caso – il Parlamento nazionale di Naypyidaw formalizzare la nomina di Htin Kyaw, braccio destro di Aung San Suu Kyi, alla presidenza della Repubblica dell’Unione. Ecco dunque spiegato l’incontro, a margine del summit, tra il Consigliere americano per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice, e alcuni esponenti delle organizzazioni non governative del Sud-est asiatico, preoccupate per la deriva autoritaria che ha preso piede in alcune aree della regione e che rischia di vanificare i progressi fatti nel corso degli ultimi due decenni. Alla fine, malgrado le riserve opposte da alcuni Stati sui temi legati ai diritti umani e alla democratizzazione, si è giunti ad un punto di convergenza. Di tenore diverso, invece, la terza sessione di lavoro dedicata alle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, vero nervo scoperto della regione Asia-Pacifico.
Fig. 2 – Il Segretario generale dell’ASEAN, Le Luong Minh, e il Segreterio di Stato USA, John Kerry, durante un incontro tenuto presso la sede dell’Associazione a Giacarta, 16 febbraio 2014.
ACQUE TORBIDE – Il Mar Cinese Meridionale è il luogo in cui la crescente assertività della Repubblica Popolare Cinese si è espressa in maniera dirompente, in controtendenza rispetto al concetto di “ascesa pacifica” sul quale la diplomazia cinese ha inteso fondare la propria politica estera e di sicurezza con il vicinato. A partire dai primi anni Duemila, infatti, la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione opera attivamente nel Pacifico meridionale eseguendo operazioni di pattugliamento ed esercitazioni militari a largo delle coste delle Paracels e delle Spratly, arcipelaghi parzialmente disabitati e contesi con il Vietnam (il primo) e le Filippine (il secondo). Entrambi questi Paesi ritengono tale condotta una palese violazione della sovranità e dell’integrità dei propri confini nazionali, puntando il dito contro il progetto espansionistico di Pechino nei mari del Sud. Per contro, la Cina continua da tempo a sostenere che le operazioni della Marina non abbiano finora sconfinato nelle zone economiche esclusive dei paesi dirimpettai, giacché restano circoscritte all’area in cui Pechino rivendica storicamente la propria sovranità. Secondo la versione ufficiale del Governo comunista, infatti, le isole e gli atolli facenti parte dei due arcipelaghi contesi si troverebbero all’interno della c.d. nine-dash line, ossia una linea di demarcazione fittizia che delimita in lungo e in largo il perimetro degli specchi d’acqua sotto controllo cinese. Dichiarata unilateralmente nel 1947 dall’allora Governo nazionalista, è stata successivamente riconosciuta dal Partito comunista una volta arrivato al potere. Per tre ragioni – di ordine sia strategico che economico – gli arcipelaghi in questione ricoprono una centralità nel Pacifico meridionale: anzitutto, risultano essere avamposti ideali da cui poter controllare il traffico marittimo delle rotte commerciali dirette verso i porti dell’Asia nord-orientale; in secondo luogo, sui suoi fondali giacciono giacimenti di idrocarburi che fanno gola alle grandi compagnie petrolifere cinesi; da ultimo, ci troviamo in presenza di zone marine dalla grande varietà di pescato, e dunque ambite dai pescherecci che ivi orbitano.
Nei mesi scorsi, immagini satellitari trasmesse dai network televisivi di tutto il mondo hanno mostrato all’opinione pubblica le installazioni militari e gli isolotti artificiali (sette, allo stato attuale) costruiti all’interno dell’area geografica rivendicata, suscitando l’indignazione unanime della comunità internazionale. In questo contesto, il vertice di Rancho Mirage ha voluto sgombrare il campo da qualsiasi dubbio e confermare una volta per tutte l’impegno degli Stati Uniti nel frenare i tentativi cinesi di “militarizzazione” del Mar Cinese Meridionale. Per la verità, il Pentagono si era mosso con discreto anticipo già nei mesi precedenti disponendo – di concerto con gli alleati della regione – le Freedom of Navigation Operations (FRENO), operazioni condotte a 12 miglia nautiche dalla terraferma e tese a garantire il rispetto delle norme internazionali in materia di navigazione. In un duro editoriale apparso sulla rete, l’agenzia di stampa governativa Xinhua ha scritto che dietro alle operazioni di ricognizione aereo-navali vi sarebbe il reale obiettivo degli Stati Uniti di ricreare una sorta di “secondo Medio Oriente” nell’Asia-Pacifico al solo scopo di difendere i propri interessi strategici nella regione, richiamando Washington ad un ruolo più costruttivo nella risoluzione delle dispute territoriali.
Fig. 3 – Una soldatessa dell’Esercito filippino sorveglia le coste dell’isola di Thitu, nell’arcipelago delle Spratly, contesa tra i Governi di Manila e Pechino, giugno 2014
NUOVA ROTTA – La Dichiarazione di Sunnylands contempla ai punti 7, 8 e 9 la risoluzione pacifica delle controversie e fa esplicito riferimento alla tutela della libertà di navigazione e sorvolo nello spazio geografico del Mar Cinese Meridionale. Il rimando è ai principi internazionalmente riconosciuti del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale contenuti nella Carta di San Francisco del 1945, nonché alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. Rispetto ai documenti precedenti, vi è stato certamente un cambio di passo istituendo perlomeno la base giuridica entro cui risolvere l’intricata questione. Nondimeno rimangono ancora frizioni all’interno del blocco ASEAN, diviso tra Stati che reclamano la propria sovranità sugli arcipelaghi contesi (accanto a Vietnam e Filippine, compaiono anche Indonesia, Malesia e Brunei), Stati che – in linea di principio – hanno assunto un atteggiamento neutrale (Thailandia e Singapore) e Stati non reclamanti (Myanmar, Laos e Cambogia). Quest’anno tocca al Laos ricoprire la presidenza di turno dell’Associazione e, tra i commentatori, c’è chi scommette che nessuna azione concreta volta ad inasprire le relazioni con il suo principale partner commerciale sarà mai intrapresa da qui alla fine dell’anno. Pertanto una soluzione al problema nel breve periodo pare piuttosto improbabile. Nella conferenza stampa finale lo stesso Presidente Obama non ha nascosto l’esistenza di opinioni divergenti tra i Paesi ASEAN sul tema delle dispute territoriali, ma ha anche auspicato che tutte le parti coinvolte possano al più presto compiere “passi tangibili” nella direzione di un allentamento della tensioni. Sebbene il comunicato congiunto non faccia esplicito riferimento alla Repubblica Popolare Cinese nei termini di Paese aggressore, esso può essere comunque valutato positivamente per due motivi: primo, le parti hanno raggiunto un’intesa sufficientemente credibile da far valere nei vertici multilaterali asiatici previsti nei prossimi mesi; secondo, compare per la prima volta il principio di “non militarizzazione” (non-militarization) accanto a quello di “auto-limitazione” (self-restraint) nella condotta delle attività aereo-navali.
In conclusione, il vertice multilaterale ha inteso dare lustro ad un’organizzazione continuamente divisa e indebolita dalla mancanza di una visione comune sulle principali questioni di politica estera. È un’associazione alla ricerca della propria identità istituzionale e gli Stati Uniti hanno inteso elevarla ad interlocutore privilegiato nello scacchiere dell’Asia-Pacifico, pedina portante del rebalance necessaria a controbilanciare l’influenza cinese su una vasta area marittima da cui transita il 40% delle rotte commerciali mondiali (secondo una stima fornita dal Council on Foreign Relations, il commercio totale nel Mar Cinese Meridionale si aggirerebbe attorno ai 5.000 miliardi di dollari annui). Sembra quindi che quanto più l’espansionismo cinese nei mari del Sud si paleserà con sempre maggior vigore, tanto più risoluta si dimostrerà la reazione – diplomatica e militare – degli Stati Uniti e dei suoi alleati asiatici. Concetto, questo, che molto probabilmente lo stesso Obama avrà modo di ribadire in occasione della sua prima visita ufficiale in Vietnam, in programma il prossimo maggio.
Raimondo Neironi
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Gli Stati del Sud-est asiatico che hanno finora preso parte al TPP sono il Brunei, la Malesia, Singapore e il Vietnam. I Governi di Indonesia, Filippine e Thailandia hanno espresso la volontà di aderirvi nei prossimi anni, mentre Cambogia, Laos e Myanmar non dispongono ancora dei requisiti minimi di accesso. Per ulteriori approfondimenti sull’accordo di libero scambio trans-Pacifico, si rimanda agli articoli del Caffè “Trans-Pacific Partnership: la nuova strategia commerciale degli USA” e “Il Vietnam e il TPP: il riposizionamento economico di Hanoi sulla scena globale”. Invece, per la strategia ASEAN dei prossimi anni, si veda “2016: un anno cruciale per l’ASEAN”. [/box]