In 3 sorsi – Un documento ufficiale pubblicato da un organo indipendente del Fondo monetario internazionale delinea le principali cause del fallimento dello stesso nel sorvegliare e monitorare il sistema economico mondiale negli anni che hanno preceduto la crisi finanziaria del 2007-2008
1. UNA CECITÀ CONTROLLATA – «Gli incentivi non erano ben allineati per favorire il candido scambio di idee necessario per una buona sorveglianza. Essi erano piuttosto mirati a far rispettare le visioni prevalenti all’interno del gruppo». Inoltre, «molti membri dello staff avvertivano che esprimere pareri fortemente contrari avrebbe potuto rovinare la loro carriera». Non è la dichiarazione di un pentito, ma un frammento del report dell’Independent Evaluation Office (IEO), l’unità di controllo interna del Fondo monetario internazionale (FMI), pubblicato nel 2011. Lo scopo del documento, che richiama la funzione tipica dello IEO, era quello di valutare la performance del FMI durante gli anni appena precedenti l’ultima crisi economico-finanziaria, nel periodo 2004-2007.
I documenti ufficiali pubblicati periodicamente dal Fondo (World Economic Outlook e Global Financial Stability Report) relativi al 2007 non accennavano alle instabilità del sistema che cominciavano a presentarsi. Nell’aprile dello stesso anno, «il messaggio del FMI era di continuo ottimismo all’interno di un contesto globale prevalentemente benigno», con «un outlook di breve termine positivo e condizioni del mercato finanziario fondamentalmente solide». Possiamo dedurne che la valutazione complessiva dell’organismo indipendente sull’operato del Fondo non sia affatto positiva. Al contrario, essa evidenzia dei problemi strutturali, sia endogeni che esogeni, che avrebbero contribuito al fallimento di uno dei principali obiettivi del FMI: sorvegliare sulla sostenibilità delle politiche economiche degli Stati membri (Articolo IV, statuto FMI).
Da quanto emerge dal report, uno dei fattori principali che spiega il comportamento del Fondo rimanda al frammento citato in apertura. In particolare, molti membri della squadra del FMI avvertirono la presenza di forti disincentivi a rivelare ai piani alti le verità emerse dai risultati; questi non avrebbero sostenuto visioni contrarie a quelle delle autorità dei singoli Paesi, soprattutto di quelli più grandi e influenti all’interno del Fondo. Così le analisi erano destinate a “giustificare” le proposte delle politiche economiche delle autorità dei Paesi membri, i quali avanzavano pressioni politiche, più o meno implicite, per modificare i messaggi della mission del FMI. Il Fondo avrebbe dovuto quindi operare, tra le altre cose, una sorta di autocensura che limitasse alcune considerazioni, nascondendole dietro un tessuto di concetti espressi in modo molto diplomatico.
Fig 1 – Una delle conferenze sul Global Financial Stability Report, tenuta dagli economisti (da sinistra, nell’ordine) M. Jones, P. Dattels, J. Vinals e R. Sheehy, 17 aprile 2013
2. UN’IPNOSI DI GRUPPO – Oltre che di tipo politico-istituzionale, i fattori che spiegano il fallimento dell’operato del FMI negli anni pre-crisi sono anche di natura puramente psicologica. Primo tra questi, il fenomeno del cosiddetto groupthink, o pensiero di gruppo: la tendenza, tra gruppi omogenei e coesi, a considerare le questioni soltanto entro un certo paradigma senza metterne quindi in discussione le premesse di base (Janis, 1982). Dunque, si bypassa l’analisi e la valutazione critica delle idee e delle diverse opinioni, sacrificando così l’autonomia di pensiero e permettendo che i punti di vista rimangano all’interno della comfort zone del consenso generale. Si tratta di una vera e propria patologia funzionale del comportamento collettivo, che può portare a scelte sconsiderate e irrazionali. È la dinamica che può spiegare, secondo l’Unità di valutazione indipendente, il comportamento dello staff del FMI: nella paura di ricevere giudizi da parte degli altri membri del gruppo, il Fondo era molto attento ad evitare di proporre considerazioni che potessero essere percepite come ingenue o inusuali. Come da definizione, il fenomeno è tipico degli aggregati altamente omogenei, esattamente come quello dell’équipe del FMI, un gruppo coeso di macroeconomisti, tutti convinti che la disciplina e l’autoregolazione del mercato sarebbero stati sufficienti per prevenire seri problemi all’interno delle istituzioni finanziarie.
Inoltre, come dichiara apertamente il report dello IEO, «lo staff del FMI si sentiva a disagio nello sfidare i punti di vista delle autorità delle economie avanzate in merito a questioni monetarie e regolatorie». In tal senso, quella che ha coinvolto i 2500 economisti dell’istituzione internazionale prenderebbe la forma di una sorta di “cattura intellettuale” generale. Questi ultimi, infatti, erano fortemente influenzati dalla reputazione e dall’expertise dei colleghi delle banche centrali di Regno Unito e Stati Uniti in particolare, spesso derivanti dall’accesso facilitato ai dati bancari e dall’approfondita conoscenza dei relativi mercati finanziari.
Fig 2 – Olivier Blanchard, “chief economist” del FMI, nonché autore del testo di riferimento per gli studi di Macroeconomia, aggiusta la sua placard prima di una conferenza stampa sul World Economic Outlook, 22 aprile 2009
3. I RISCHI DEL MESTIERE – L’ultimo problema individuato dall’organismo di valutazione è invece di natura intellettuale. È infatti nella scelta degli approcci analitici e nella presenza di importanti knowledge gaps (divari conoscitivi) che risiede una delle fonti del fallimento del FMI nell’individuare i potenziali rischi e le vulnerabilità del sistema economico. Tra le righe del report in questione, si legge che alcune di queste lacune sarebbero condivise dalla professione nel suo complesso. Di fatto lo staff, così come la grandissima maggioranza degli economisti, credeva davvero che «la sofisticatezza dei mercati finanziari avanzati potesse fiorire in modo sicuro con una minima regolamentazione di una larga e crescente porzione del sistema finanziario», prevenendo così la possibilità di crisi economiche.
In realtà, questi divari sono stati generati anche da un problema generazionale: la maggior parte degli economisti che lavoravano al FMI ai tempi della crisi si erano formati negli anni Novanta, quando il taglio dato all’insegnamento della disciplina nelle università americane era abbastanza critico nei confronti della teoria keynesiana, dando spazio invece al monetarismo e alla macroeconomia neoclassica. L’emergere di queste teorie ha fatto sì, ad esempio, che le ricerche attuate dagli economisti del FMI non prevedessero un’analisi adeguata del nesso esistente tra settore macroeconomico e finanziario. Nel caso della crisi finanziaria, infatti, molti dei dati disponibili (la crescita del credito, la leva finanziaria, il ruolo degli strumenti ad alto rischio etc.) furono ignorati o male interpretati. Apparentemente, la crisi asiatica di appena un decennio prima non fu sufficiente a richiamare l’attenzione della teoria economica applicata dallo staff del Fondo sui link macro-finanziari.
A sostenere queste considerazioni si aggiungono, in chiave più generale, le parole del premio Nobel Paul Krugman, il quale, nel 2009, affermò che «la disciplina economica andò fuori rotta poiché gli economisti scambiarono la bellezza, rivestita da matematica di notevole fascino, per verità». Più recentemente, Rogoff nota come la corrente principale della ricerca economica in macroeconomia abbia anteposto la coerenza teorica e l’eleganza allo studio dei dati e all’analisi empirica. Questa dipendenza degli economisti dai modelli come unico strumento valido per analizzare le condizioni economiche, molte delle quali troppo complesse per essere modellate, può spiegare le defaillances del team del FMI nel periodo considerato.
(Continua)
Leonardo Conte
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
La nuova macroeconomia neoclassica (NMC) emerge alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, sottolineando l’importanza delle azioni degli individui quali agenti razionali, che usando le informazioni a propria disposizione non commettono errori sistematici nel processo di formazione delle loro aspettative (teoria delle aspettative razionali). Ciò implica che essi reagiscano piuttosto rapidamente alle scelte di politica economica, permettendo quindi ai mercati di essere sempre in equilibrio. Secondo l’economista Robert Lucas, uno dei protagonisti del dibattito accademico di quegli anni, le regole di decisione degli operatori all’interno dei modelli keynesiani comunemente utilizzati non potevano essere considerate invariabili rispetto ai cambiamenti delle politiche pubbliche (Lucas’ critique). L’evidenza empirica, tuttavia, non ha avvalorato le implicazioni della teoria, dando adito a nuove ipotesi sulla razionalità limitata e sulle asimmetrie informative (vedi Simon, Akerlof, Shiller, Stiglitz, nonché la più recente branca della Behavioural economics).
Nella seconda parte dell’articolo ripercorreremo le azioni intraprese dal FMI in seguito al 2011 per rimediare agli errori fatti nella gestione della crisi finanziaria del 2008. [/box]