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Chi vota per l’Iraq?

Alla vigila delle elezioni, su cui peraltro è in corso una battaglia politica legata alla legge elettorale, Baghdad è sempre più al centro delle mire terroristiche.

MENO USA, PIU’ VIOLENZA – Le esplosioni -quattro per l’esattezza- che lo scorso 8 dicembre hanno devastato alcune aree non lontano dalla cosiddetta “Zona Verde” di Baghdad (quella delle ambasciate e dei centri amministrativi, da molti considerata la zona più militarizzata del mondo), non sono una sorpresa. Non per chi segue l’Iraq da tempo e con occhi attenti, almeno. Negli attacchi di martedì scorso sono rimaste uccise circa 130 persone, a testimonianza della escalation di violenza che, dalla fine di quest’estate in poi, sta investendo nuovamente il Paese. E pensare che il Presidente statunitense Barack Obama, appena eletto alla Casa Bianca, aveva annunciato grandi novità per l’Iraq, anticipando anche il ritiro di tutte le truppe statunitensi dai centri urbani del Paese di qualche giorno e promettendo un ritiro completo (anche dalle basi) entro il 2011. Nel frattempo, l’Iraq dovrebbe dotarsi di un nuovo parlamento, tramite le elezioni previste per l’inizio dell’anno prossimo, e concludere il travagliato cammino verso la stabilizzazione, la pace e la democrazia

SUNNITI vs. SCIITI: ATTO SECONDO – Il problema è che la democrazia, come abbiamo imparato (seppur a fatica) negli ultimi anni, non si esporta, né tantomeno si impone con mezzi bellici e, d’altro canto, l’Iraq non può dirsi per nulla un Paese in via di stabilizzazione. Il ritiro dei soldati americani dalle città irachene avrebbe dovuto coincidere con il passaggio dei pieni poteri alle forze di polizia e di sicurezza locali, poste sotto il controllo del governo a maggioranza sciita presieduto da Nour al-Maliki, ma evidentemente così non è stato. Questo è il messaggio principale di cui sembrano essere portatori gli attentatori suicidi che continuano a mietere terrore e morte nelle strade di Baghdad. Proprio la capitale. Proprio a ridosso della (un tempo) sicurissima “Green Zone”. Non solo: sembrano tornare gli spettri di una guerra civile settaria tra le comunità sciita e sunnita del Paese che, dopo la stagione di sangue tra il 2004 e il 2007, sembrava temporaneamente messa da parte, almeno parzialmente, grazie alla capacità di Washington di cooptare nella lotta contro al-Qaeda e i suoi affiliati molti appartenenti alle tribù sunnite irachene, i cosiddetti “Awakening Counsils”. 

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TUTTI ALLE URNEDa un lato il ritiro statunitense, dall’altro le elezioni alle porte, quindi, e tutto da rifare. Le Forze di Sicurezza irachene da sole non sono chiaramente in grado di assicurare un seppur minimo livello di stabilità e sicurezza ai cittadini iracheni e, contemporaneamente, la battaglia politica per la suddivisione dei seggi in Parlamento e la ridefinizione degli equilibri interni, si sta trasformando ogni settimana che passa in una vera e propria guerra interna. L’obiettivo della logica terroristica è duplice: screditare lo sciita al-Maliki, attuale Primo Ministro (con ogni probabilità gli attentati sono perpetrati da gruppi vicini agli ambienti più radicali del sunnismo e degli ex ba’athisti) e boicottare a tutti i costi il processo di democratizzazione del Paese, minando la credibilità e la stessa messa in atto della prossima tornata elettorale. E’ così che gli Iracheni tornano a morire a centinaia per le strade e nelle piazze di Baghdad e, in Parlamento, si delinea un ormai quasi certo slittamento delle elezioni, inizialmente previste per il 18 gennaio. In effetti, dispiace dirlo, ma la strategia terroristica sta momentaneamente facendo vedere i suoi frutti: dopo l’accordo precedentemente raggiunto per la legge elettorale, infatti, il vice-Presidente Tariq al-Hashemi (un sunnita) ha posto il veto su tale legge. Motivo: tentare di dare più peso ai voti degli iracheni rifugiati all’estero, neanche a dirlo, la maggior parte sunniti.  

IL FUTURO E’ NERO – C’è dunque da aspettarsi qualche miglioramento nella situazione politica e di sicurezza interna dell’Iraq? Senza dover essere dei grandi analisti e senza voler apparire come delle Cassandre, la risposta sembra essere inevitabilmente negativa. Perché al-Qaeda o chi per essa dovrebbe smettere la propria strategia terroristica proprio ora che sta dando i suoi frutti, dividendo nuovamente il Paese che sembrava quasi sull’orlo di una riunificaziine nazionale solo un paio di anni fa? Nel momento in cui anche la stessa comunità sciita sembra essere sempre più divisa al suo interno, le destabilizzazioni di matrice sunnita sembrano poter riportare il Paese a sprofondare nel baratro e, in questo clima, si irrigidirebbero le misure di sicurezza e il governo sciita rischia di apparire sempre più dispotico e autoritario, tanto è vero che affiorano i primi accostamenti addirittura all’Iraq di Saddam Hussein, dando a molti iracheni l’impressione che sia legittimo combatterlo (proprio come vorrebbe il fondamentalismo sunnita che sta perpetrando gli attacchi). Ciò che accadrà nelle prossime settimane, prima che venga definita con certezza la data delle elezioni politiche, purtroppo non sembra difficile da prevedere e l’Iraq rischia così di tornare un terreno privilegiato per tutta la galassia terroristica di ispirazione qaedista, nel momento in cui, a livello internazionale, gli Usa sembrano volersi concentrare (quasi) solo sull’Afghanistan. Quando la discussione interna, poi, arriverà a coinvolgere anche l’unica porzione di Iraq in parte stabilizzata, il Kurdistan (con l’annosa questione di Kirkuk da risolvere), allora la situazione potrebbe davvero tornare incontrollabile e scatenare reazioni a catena in tutta la regione, coinvolgendo la Turchia, la Siria, l’Iran e gli USA in maniera ancora più diretta. 

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