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In Donald we trust: Trump e il voto religioso

Caffè Americano Una delle maggiori incognite in questa campagna elettorale per la conquista della Casa Bianca risiede nella questione del voto religioso. In particolare, vista la candidatura piuttosto atipica di Donald Trump, non è perfettamente chiaro come l’elettorato mosso da motivazioni di fede potrà comportarsi a novembre. Perché, al di là di valutazioni superficiali, la realtà dei fatti potrebbe rivelarsi molto complessa.

IL VOTO EVANGELICO – Storicamente il voto evangelico riveste un’importanza fondamentale nelle elezioni per la presidenza statunitense. Per quanto gli evangelici si siano sempre tendenzialmente collocati nell’alveo della destra, fino agli anni ’70 non esisteva un voto propriamente religioso. In quel periodo, il sostegno fornito da buona parte della galassia protestante a Richard Nixon e Gerald Ford si mischiava al più generale umore della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, che guardava con preoccupazione all’emergere della New Left e ai programmi radicali di alcuni candidati (come George McGovern nel ’72). Le cose iniziarono a cambiare con l’ascesa di Ronald Reagan. Nel pieno del riacutizzarsi dello scontro tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, Reagan cominciò a conferire sempre maggiore importanza alla religione e ai gruppi di sostegno evangelici: l’idea era sostanzialmente quella di creare un fronte ideologico comune contro il materialismo marxista e – sotto questo aspetto – l’enfasi sulle questioni morali e teologiche rappresentò un elemento centrale della lotta reaganiana all’URSS.

Fu proprio in quel periodo che – sotto la guida di alcuni predicatori – buona parte della galassia evangelica iniziò a organizzarsi politicamente, acquisendo sempre più consapevolezza della propria forza elettorale. Una forza crescente, che portò gli evangelici ben presto a reclamare spazi propri, se non addirittura una vera e propria scalata ai vertici del partito repubblicano. Le prime avvisaglie di questa ambizione si notarono già nel 1988, quando il predicatore Pat Robertson contese la nomination repubblicana al vicepresidente George Herbert Bush, che aveva dalla sua praticamente la totalità del partito. Fu un fiasco ma quattro anni dopo lo spettro tornò e colpì duramente. Non sono pochi difatti gli analisti, secondo cui la sconfitta di Bush padre nel ’92 sia stata dovuta anche a un’astensione dell’elettorato evangelico, che considerava il presidente uscente troppo freddo su alcune tematiche etico-religiose.

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Fig. 1 – Il predicatore Pat Robertson, sfidante di George Bush senior alle primarie repubblicane nel 1988

Come che sia, la cosiddetta religious right aumentò da allora sempre più il suo peso in seno all’elefantino. Nel 2000, George Walker Bush costituì abilmente una coalizione conservatrice eterogenea che – non senza difficoltà – riuscì a guidare per otto anni, mediando costantemente tra le varie anime che la componevano (evangelici e neoconservatori in primis). Sennonché, dopo quell’esperienza, la destra religiosa ha cercato di conquistare autonomamente la guida del partito repubblicano, rifiutando compromessi e riuscendo così a tenerlo fondamentalmente in ostaggio per ben due tornate presidenziali: la disfatta elettorale di John McCain nel 2008 fu in parte dovuta all’astensione degli evangelici, che giudicavano il senatore un maverick di sinistra, non in linea sulle tematiche eticamente sensibili (a partire dall’aborto). Discorso simile fu per Mitt Romney nel 2012, letteralmente boicottato dagli evangelici perché mormone. In entrambi i casi, la destra religiosa aveva prodotto propri candidati nel corso delle primarie repubblicane (l’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, nel 2008 e il senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, nel 2012) e non ne volle sapere di appoggiare altri.

ED OGGI? – L’incognita riguarda quindi adesso il 2016, davanti a una figura, Donald Trump, non esattamente rispondente ai criteri ideologici e valoriali della destra religiosa (il miliardario non solo si è sposato tre volte ma ha anche un passato – recentemente rinnegato – da filo-abortista). Durante le primarie repubblicane, i candidati naturalmente vicini alla destra evangelica erano l’ex neurochirurgo Ben Carson e – soprattutto – il senatore texano Ted Cruz. Se da una parte Trump è riuscito molto presto ad accattivarsi le simpatie di alcune quote evangeliche, è altrettanto vero che buona parte di quella galassia gli abbia comunque remato contro per molto tempo. Soprattutto Cruz si è fatto per mesi portavoce dei religiosi anti-Trump, cercando di dipingere il magnate come un repubblicano fasullo e sostanzialmente sinistrorso. Ma ora che la concorrenza del senatore è stata definitivamente arginata, che cosa deve sperare Trump?

Secondo un sondaggio recentemente riportato dal Washington Post, circa il 78% degli evangelici in questo momento sosterrebbe il miliardario newyorchese. Un dato certamente incoraggiante, per quanto – si fa notare – è possibile che il sondaggio raccolga chi si definisce genericamente repubblicano e religioso e che quindi non faccia automaticamente riferimento allo zoccolo duro delle chiese e delle congregazioni. Quindi, al di lĂ  dei numeri (più  o meno aleatori in questo periodo dell’anno), bisognerĂ  vedere alcuni elementi di fondo. Che ci siano delle consonanze tra la destra religiosa e i programmi del miliardario non ci sono dubbi (dall’opposizione all’Islam all’immigrazione). Il nodo starĂ  nel cercare di capire se Trump riuscirĂ  a farsi ritenere un repubblicano autentico, in linea con i valori di quel mondo. E, a ben vedere, le strategie che il fulvo magnate ha adottato sotto questo aspetto sono due. Innanzitutto la scelta di un conservatore “classico” come Mike Pence quale proprio vice. In secondo luogo, l’aver proposto nomi fortemente vicini alla galassia conservatrice per la sostituzione del giudice Antonin Scalia alla Corte Suprema. BasterĂ ? E’ presto per dirlo. Ma l’eventuale vittoria di Trump a novembre passerĂ  anche tra le forche caudine degli evangelici.

IL VOTO CATTOLICO – Proprio per la particolare attenzione che la dottrina della Chiesa dà alle questioni sociali, il voto cattolico statunitense si è generalmente legato al partito democratico. Una lunga tradizione di politici progressisti (Nancy Pelosi, John Kerry, Joe Biden) affonda difatti le proprie radici ideologiche nella figura di John F. Kennedy: primo (e ad oggi unico) presidente cattolico degli Stati Uniti. A partire da lui (ma anche prima, se si pensa alla figura di Al Smith), il cattolicesimo progressista americano si è sempre contraddistinto per due elementi fondamentali: interesse per le problematiche sociali e netta separazione tra Stato e Chiesa (spesso in aperta polemica nei confronti della destra evangelica). Soltanto negli ultimi anni si è assistito a una corposa comparsa di cattolici in seno al partito repubblicano: in parte dovuta all’opposizione all’Obamacare promossa negli anni scorsi dall’arcivescovo di New York, Timothy Dolan.

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Fig. 2 – L’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, tra i piĂą strenui oppositori dell’Obamacare

Il punto è che tuttavia i cattolici repubblicani risultino tendenzialmente di orientamento ideologico centrista (si pensi per esempio a Jeb Bush o a Marco Rubio) e la maggior parte di essi appartengono a quell’establishment verso cui Trump non ha fatto che lanciare acuminati strali nel corso dei mesi. In virtù di tutto questo, è difficile che la maggioranza dell’elettorato cattolico possa decidere di compattarsi dietro al miliardario. Sennonché non è scontato che i cattolici finiscano col sostenere Hillary Clinton: non solo (e non tanto) per le sue posizioni etiche fondamentalmente liberal, quanto per le sue vicinanze politiche alle alte sfere finanziarie, denotanti un non eccessivo coinvolgimento nelle questioni di carattere sociale. In particolare, secondo un recente sondaggio, la maggioranza dei cattolici ispanici (76%) risulterebbe favorevole all’ex first lady, laddove tra i bianchi prevarrebbe il magnate (51%). Non bisogna infine dimenticare la polemica avuta da Trump verso il Papa alcuni mesi fa: un fattore che tuttavia non è chiaro quale incidenza possa avere nell’elettorato statunitense (così come non è risultato particolarmente chiaro quanto abbia influito il viaggio di Bernie Sanders in Vaticano la primavera scorsa).

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Fig. 3 – John Fitzgerald Kennedy, unico Presidente cattolico nella storia degli USA

IL VOTO MORMONE – Un discorso a parte merita la questione del voto mormone. Recentemente il New York Times ha messo in luce come un elettorato tradizionalmente conservatore e repubblicano come quello mormone potrebbe decidere di votare per Hillary Clinton a novembre: soprattutto in una roccaforte mormone come lo Utah. Qui la situazione appare piuttosto delicata e dovuta a fattori eterogenei. Secondo diversi analisti, i mormoni temerebbero l’aggressività mostrata da Trump nei confronti delle minoranze etniche e religiose. In particolare, per molti di loro, il magnate potrebbe addirittura arrivare a mettere a rischio il I Emendamento. Più nel dettaglio, vi sarebbe poi una questione più squisitamente politica. Nonostante la fama di elettorato ultraconservatore, alle primarie repubblicane del 2008 e del 2012 i mormoni hanno sostenuto un candidato centrista come Mitt Romney, in quanto loro correligionario. Lo stesso Romney è notoriamente da mesi sul piede di guerra contro Donald Trump e ha recentemente sostenuto che non darà il proprio endorsement al miliardario. E d’altronde, un pericoloso campanello d’allarme per il magnate è venuto proprio dal caucus dello Utah, che lo ha visto sconfitto dal senatore texano Ted Cruz (non a caso spalleggiato dallo stesso Romney). In tal senso, va da sé come questa serie di circostanze non rappresentino un buon auspicio per il candidato repubblicano. E questo proprio guardando allo Utah, dal momento che risulta strategicamente fondamentale per lui mantenere gli Stati che votarono repubblicano nel 2012 per cercare poi di espandersi nel Nord Est democratico.

Stefano Graziosi

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂą

L’ultima volta che lo Utah ha votato democratico alle presidenziali è stato nel 1964 [/box]

Foto di copertina di Gage Skidmore pubblicata con licenza Attribution-ShareAlike License

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Stefano Graziosi
Stefano Graziosi

Nato a Roma nel 1990, mi sono laureato in Filosofia politica con una tesi sul pensiero di Leo Strauss. Collaboro con varie testate, occupandomi prevalentemente di politica americana. In particolare, studio le articolazioni ideologiche in seno al Partito Repubblicano statunitense.

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