Milorad Dodik, Presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, è deciso a portare avanti il discusso referendum del 25 settembre, nonostante il mancato appoggio della Serbia di Vucic e i timori dei Governi occidentali.
LA DECISIONE DELLA DISCORDIA – È stato un percorso lungo quasi tre anni, quello che ha portato alla discussa decisione presa lo scorso 26 novembre dalla Corte Costituzionale della Bosnia ed Erzegovina. Una sentenza emessa con una maggioranza di cinque voti, compresi quelli dei tre giudici internazionali membri della Corte, contro quattro. Ma tanto è bastato per accogliere i rilievi di incostituzionalità relativi alla data scelta dalle autorità della Repubblica Srpska di Bosnia-Erzegovina per celebrare la Festa Nazionale dell’Entità a maggioranza serba del Paese.
La giornata contestata cade infatti il 9 gennaio, giorno di Santo Stefano, patrono della comunità serbo-ortodossa e, per tale ragione, ritenuto incompatibile con i valori di non discriminazione statuiti dalla Costituzione della Bosnia-Erzegovina.
A ricorrere alla Corte è stato, nel 2013, Bakir Izetbegovic, membro bosgnacco della Presidenza generale del Paese. Inizialmente, il leader del Partito d’Azione Democratica aveva rimarcato la propria contrarietà non soltanto verso la data scelta ma anche, tout court, nei confronti dell’opportunità che una delle due anime della Federazione potesse festeggiare un proprio National Day.
Fig. 1 – Conferenza stampa di Milorad Dodik, Presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina
Prevedibile il rifiuto del Presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik di attenersi alla decisione della Corte che, nella sentenza, aveva comunque concesso sei mesi di tempo al Governo di Banja Luka per trovare una nuova data, salvaguardando così i festeggiamenti dell’imminente gennaio 2016. Dodik, storicamente avverso ai controlli giurisdizionali centralizzati, si era infatti già reso promotore di una proposta referendaria piuttosto drastica e che, tra le polemiche della comunità internazionale, è tramontata definitivamente solo lo scorso febbraio: quella di sottoporre alla volontà popolare l’effettività della giurisdizione della Corte Nazionale – organo diverso dalla Corte Costituzionale, e che include una sezione dedicata ai crimini di guerra – nei confronti dei cittadini della Repubblica Serba.
Tuttavia, il leader serbo-bosniaco ha approfittato della sentenza sulla Giornata Nazionale per rilanciare con un nuovo referendum, previsto per il 25 settembre, e la cui formulazione implicherebbe non solo il disconoscimento della sentenza ma punterebbe a minare anche l’autorevolezza dell’organo da cui proviene.
Il quesito previsto, apparentemente semplice e diretto, riporterebbe infatti solamente una domanda diretta: ovvero, se i cittadini siano favorevoli o contrari al 9 gennaio come data della Festa Nazionale della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina. Tale formula, nella sua linearità, evita scientemente di menzionare l’esistenza di una sentenza di incostituzionalità e tantomeno quella di una Corte che si sia pronunciata in merito. E, qualora possano essere esistiti ancora dubbi in merito all’enunciato scelto, Dodik ha provveduto a spazzarli via lo scorso 16 settembre, dichiarando alla stampa locale di essere ancora disposto a fermare il referendum, a patto che la Corte ribalti la sentenza del 26 novembre 2015.
IL MANCATO APPOGGIO DELLA SERBIA – Al di là dell’indubbia portata giuridica del principio della non discriminazione, anche in considerazione dei dati del censimento del 2013 che contano un 19% abbondante di cittadini non serbi nel territorio, occorre non sottovalutare il lato geopolitico della vicenda.
Il 9 gennaio è, infatti, anche la ricorrenza della proclamazione unilaterale della Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia-Erzegovina, avvenuta nel 1992, quale parte integrante della Jugoslavia, in controtendenza con la dissoluzione della medesima. All’istituzione di tale Regione autonoma, il Governo di Sarajevo rispose con una consultazione referendaria locale, boicottata dalla cittadinanza serba, e il cui esito portò alla rapida proclamazione d’indipendenza della Bosnia-Erzegovina, avvenuta a marzo dello stesso anno.
Fig. 2 – Dodik con il Primo Ministro serbo Aleksandar Vucic, dicembre 2015
Dopo tre anni di sanguinose vicende, gli Accordi di Dayton del 1995 stabilirono il nuovo assetto della Bosnia ed Erzegovina indipendente: sintomatico della fragilità della situazione il fatto che, ad apporre la firma in rappresentanza dei serbi di Bosnia, fu Milosevic, allora Presidente della Serbia, territorio facente parte del nuovo assetto federale della Jugoslavia.
Partecipando alle celebrazioni di Banja Luka del 9 gennaio 2016, nonostante la sentenza della Corte, il Primo Ministro serbo Aleksandar Vucic ha ribadito la special relationship tra la Serbia e la Repubblica Srpska, richiamandosi proprio allo spirito di Dayton: tutela dell’integrità della Bosnia-Erzegovina, ma anche politica di protezione del Governo di Belgrado nei confronti dell’Entità serba formalizzata con gli accordi del 1995.
Ma, come abbiamo già avuto modo di analizzare, Vucic non intende limitare la politica internazionale del suo Governo alla dimensione regionale e la prima ragion d’essere della formazione partitica da lui fondata assieme al Presidente della Repubblica Nikolic, il Partito Progressista Serbo, resta la roadmap europea.
Così, alla vigilia del referendum, il Governo di Banja Luka non ha ottenuto l’endorsement sperato: ad inizio settembre la visita in Bosnia di Vucic e Nikolic si è conclusa con un documento rilasciato alla stampa nel quale i massimi dirigenti serbi hanno sì ribadito la legittimità delle posizioni di Dodik ma hanno anche reso chiaro come il Governo di Belgrado non condivida l’iniziativa e non intenda sostenerla in alcun modo.
Fig. 3 – Una foto del Presidente russo Vladimir Putin in bella mostra durante una manifestazione filo-governativa a Banja Luka, aprile 2016
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE – Vucic, nel tentativo di armonizzare la dimensione balcanica della sua politica estera con quella europea, ha assunto la duplice veste di difensore dell’autonomia della Repubblica Srpska nella Bosnia-Erzegovina e di mediatore tra Dodik e Bruxelles. Non riuscendo, tuttavia, nel gioco di equilibri, a trovare una indirizzo comune anche con Mosca.
Agli accordi del 1995, infatti, aveva fatto immediatamente seguito la creazione di un meccanismo di controllo, il PIC (Peace Implementation Council), un Consiglio di cui fanno parte circa 55 membri, tra Stati ed organizzazioni internazionali.
Organo che, durante questa estate, ha espresso tutta la sua preoccupazione sul referendum, sino alla compilazione di un comunicato stampa del 30 agosto, da cui il rappresentante russo si è dissociato formalmente abbandonando la seduta. Altresì, non appare affatto casuale che l’agenda di Dodik preveda, tre giorni prima del referendum, un incontro a Mosca con Putin.
Fig. 4 – Dodik, Vucic e il Patriarca della Chiesa serbo-ortodossa Irinej partecipano alle commemorazioni per il centesimo anniversario della battaglia di Cer, agosto 2014
E se tanto Washington quanto Bruxelles, nonché gli esecutivi dei singoli Stati europei, temono che la consultazione popolare possa dare vita ad un pericoloso effetto domino, dall’altro lato, la Russia, è effettivamente l’unico attore internazionale che potrebbe trarre beneficio dallo svolgersi della medesima.
Certamente, il Cremlino non auspicherebbe un effettivo disfacimento della Bosnia-Erzegovina: piuttosto avrebbe tutto l’interesse a ritardare un consolidamento in grado di tracciare un percorso per Sarajevo similare a quello delle altre Repubbliche ex jugoslave: ingresso nell’Unione Europea e, soprattutto, ingresso nella NATO. Contemporaneamente, inoltre, una Repubblica Srpska con una maggiore legittimazione sul profilo internazionale potrebbe influenzare, nel medio periodo, anche le scelte di Belgrado e rafforzare ulteriormente la posizione di Putin nel cuore dei Balcani occidentali a discapito di Stati Uniti e alleati nordatlantici.
Riccardo Monaco
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Come accennato, la Corte Nazionale di Bosnia-Erzegovina e la Corte Costituzionale del medesimo Paese, sono due organi distinti, tuttavia ambedue piuttosto peculiari.
La Corte Nazionale, pur essendo regolata dalle leggi dello Stato, integra, per certe funzioni il ruolo del Tribunale Internazionale per i Crimini della ex Jugoslavia (ICTY) ed include la partecipazione di giudici e procuratori stranieri. A differenza dell’ICTY non ha un mandato limitato nel tempo e prevede che eventuali condannati scontino la pena nel territorio della Bosnia-Erzegovina.
La Corte Costituzionale, pur occupandosi delle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi del Paese, è stata istituita dagli Accordi di Dayton, che ne definiscono ruolo e funzioni.
La sua composizione, contrariamente alle omologhe Corti di altri Stati, prevede la presenza di tre giudici stranieri, cui si affiancano sei membri rappresentanti le tre nazionalità della Bosnia-Erzegovina.[/box]
Foto di copertina di Jovo Milanovic Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License