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L’offshore e i Panama Papers, il paradiso fiscale dell’America caraibica

I paradisi fiscali del pianeta sono una gigantesca fonte di attrazione di capitali sottratti al fisco, privando gli Stati di ingenti risorse potenzialmente destinate alla crescita economica e alla riduzione delle disuguaglianze sociali. Le società offshore rappresentano uno tra i più gravi problemi dell’economia globalizzata? 

OFFSHORE, L’ONDA LUNGA DELLA QUESTIONE FISCALE – Gli storici dell’economia raccontano che nella fase decadente dell’impero molti cittadini romani fuggirono nei vicini e minacciosi regni barbarici, generalmente ritenuti ben poco appetibili. La ragione? Essenzialmente il desiderio di pagare meno tasse, dato che la ferrea burocrazia romana difficilmente permetteva di aggirare le ramificate norme fiscali di un’amministrazione pleonastica. Come non ricordare, inoltre, i Padri pellegrini che nel XVII secolo abbandonarono l’Inghilterra per raggiungere le coste nordamericane. Essi furono certamente mossi da rilevanti motivi politici e religiosi, ma probabilmente avevano anche l’obiettivo di giungere in un luogo dove nessuna vessazione fiscale sarebbe stata più permessa. Due esempi tra loro ovviamente molto diversi, eppure sottilmente legati dal filo rosso della ribellione alla tassazione, che continuamente emerge nel rapporto tra il cittadino e l’autorità, diventando talvolta il segnale del fallimento di un’amministrazione o addirittura di un’intera civiltà. La ricerca di un paradiso fiscale diventa, in tali frangenti, la soluzione escogitata da alcuni privilegiati per sottrarsi ad obblighi ritenuti troppo gravosi.

NATURA DELLE SOCIETÀ OFFSHORE – Proprio nel perdurante conflitto tra l’interesse individuale e quello collettivo si innesta, oggi, la questione delle società offshore. Il termine significa letteralmente “fuori dai confini delle acque territoriali” e fa riferimento ad organizzazioni di vario genere che hanno la sede fiscale in un paese diverso da quello in cui normalmente svolgono le proprie attività. La clamorosa pubblicazione nello scorso aprile dei Panama Papers, documenti segreti digitalizzati creati dalla società legale panamense Mossack Fonseca, ha portato finalmente alla ribalta l’entità del fenomeno, svelando numeri e nomi che pochi si sarebbero aspettati. Sarebbero infatti oltre 214.000 le società che non pagano le tasse dove realmente operano, bensì in Paesi il più delle volte microscopici e con una caratteristica comune: regimi fiscali estremamente favorevole ai capitali, talvolta addirittura inesistenti. Se questa è la prima ragione che ne spiega la diffusione, la seconda risiede nel ruolo determinante svolto dal segreto bancario, ossia la garanzia di riservatezza sulla provenienza dei capitali e l’impossibilità (o l’estrema difficoltà) da parte delle magistrature estere di indagare sui flussi di denaro. Dopo il lassismo fiscale dei barbari e il tenace sogno della Nuova Inghilterra, i paradisi fiscali moderni si avvalgono quindi di tutte le possibilità, esplicite o implicite, offerte dalla libera circolazione dei capitali. E i numeri disponibili sono raccapriccianti: alcuni studi parlano di oltre 30 mila miliardi sottratti al fisco: un terzo dell’economia mondiale!

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Fig.1 – attivisti chiedono trasparenza dopo la pubblicazione dei Panama Papers

COME FUNZIONA UNA SOCIETÀ OFFSHORE Per spiegare in concreto il modus operandi di una società offshore è illuminante un esempio, divenuto ormai un classico perché più volte citato sia dalla stampa nazionale che internazionale, proposto originariamente dal giornalista del Guardian Nicholas Saxon nel giugno 2015, proprio al culmine dell’indagine sui Panama Papers. Ne riportiamo un estratto: «Mettiamo che una società prepari un container pieno di banane in Ecuador, che costa alla società 1.000 dollari e le vende a un supermercato francese per 3.000 dollari […]. La multinazionale mette su tre società, tutte di sua proprietà: EcuadorCo, HavenCo (in un paradiso fiscale) and FranceCo. EcuadorCo vende il container a HavenCo per 1.000 dollari, e HavenCo le vende a FranceCo per 3.000 dollari […]. Potreste esservi persi cos’è successo: a EcuadorCo è costato 1.000 dollari preparare il container, e l’ha venduto per 1.000 dollari. Quindi EcuadorCo non registra guadagni, e perciò niente tasse. Allo stesso modo, FranceCo lo compra per 3.000 dollari e lo vende al supermercato per 3.000 dollari. Di nuovo, niente guadagni e niente tasse. HavenCo è la chiave del puzzle. Ha comprato il container per 1.000 dollari e lo ha venduto per 3.000, per un guadagno di 2.000 dollari. Ma ha sede in un paradiso fiscale, perciò non paga tasse». Da notare che il paradiso fiscale in questione non ha visto neanche transitare la merce, rappresentando solo il cruciale anello di congiunzione tra il luogo di produzione e quello di consumo.

QUALI SONO I PARADISI FISCALI – Tra le sedi prescelte per la creazione di società offshore, molto gettonate sono alcune delle numerose isole caraibiche che corredano il tratto d’Oceano tra America Settentrionale e Meridionale. Oltre al ruolo strategico di Panama, che sembra fare dell’attrazione di capitali esteri la sua principale politica economica, vanno citate almeno le Bermuda, le Cayman, le isole Vergini Britanniche, Santa Lucia e le Barbados. Da sottolineare che il regime fiscale garantito alle società offshore non sempre è lo stesso goduto dai residenti, per i quali sono spesso vigenti aliquote simili a quelle dei Paesi in cui la multinazionale ha la sede originaria. Un paradosso che tuttavia si spiega facilmente: i paradisi fiscali non esistono indipendentemente dalle società offshore che li scelgono. Tutta la loro architettura istituzionale, cioè, è concepita per diventare luogo d’attrazione di ricchezza prodotta altrove, indipendentemente dagli effetti interni. La diretta conseguenza è che i residenti sono sistematicamente esclusi da questi ingenti transiti di denaro, di cui probabilmente non sono neanche a conoscenza. Non a caso, i livelli di disuguaglianza dei paradisi fiscali risultano tra i più alti del pianeta e la qualità dei servizi pubblici essenziali tra i più scadenti. Un paradiso per pochi e un inferno per molti, si potrebbe facilmente sostenere.

LE RAGIONI DELLE SOCIETÀ OFFSHORELo scandalo sollevato dai Panama Papers mette in evidenza solo una faccia della medaglia, rappresentata dalla non sempre quantificabile elusione fiscale. A dire il vero, però, non tutte le società offshore sono formalmente contro la legge. In Italia, ad esempio, il diritto tributario permette, in certi casi, di scegliere sedi fiscali estere per le imprese, purché ci sia massima trasparenza sui flussi di denaro in entrata e in uscita. Inoltre alcuni analisti mettono in evidenza un presunto ruolo economico positivo dei paradisi fiscali, sostenendo che le tassazioni favorevoli favoriscano l’accumulazione di capitale e quindi facilitino gli investimenti privati, liberandoli dalle morse della burocrazia statale. È una posizione che somiglia molto al cosiddetto effetto sgocciolamento delle teorie liberiste, secondo cui la crescita dei redditi detenuti dai ricchi si riversa, attraverso un meccanismo automatico garantito dal mercato, anche sui poveri. Purtroppo, però, mancano evidenze empiriche al riguardo, che anzi il più delle volte mostrano una tendenza contraria e suggeriscono lo stretto rapporto tra evasione fiscale, bassa crescita e sperequazione dei redditi.

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Fig.2 – veduta di un atollo delle isole Cayman, paradiso anche per il turismo

LE CONSEGUENZE E LE POLITICHE POSSIBILI – Se non necessariamente le società offshore contravvengono alle legislazioni nazionali, certamente rappresentano pratiche di occultamento di denaro che, di fatto, limitano le prerogative redistributive degli Stati. Diventano inoltre dei grandi buchi neri, all’interno dei quali possono facilmente esserci proventi illeciti, che grazie al segreto bancario vengono camuffati. La lotta ai paradisi fiscali non è, ben inteso, questione solo dei nostri giorni. Uno dei primi tentativi risale al 1962 e se ne fece promotore il presidente John Kennedy quando propose energicamente una legge, la Controlled foreign corporations legislation, basata su un semplice ma rivoluzionario principio: la tassazione dei profitti di società estere delle multinazionali americane. Non se ne fece nulla, ma è un esempio del ruolo che una legislazione drastica e chiara può assumere per arginare il fenomeno. Oggi sappiamo che senza la collaborazione dei paradisi fiscali tutto diventa più difficile e che, allo stesso tempo, tale collaborazione è poco più di un miraggio. Ciò non esclude, comunque, la ricerca di strade indirette. Sarà mai, ad esempio, che la famigerata Tobin Tax, proposta nel lontano 1972 dall’economista James Tobin e che prevede una tassazione tra lo 0,05 e l’1% sulle transazioni finanziarie, costituisca ancora un possibile strumento di lotta alle disuguaglianze generate dalla liberalizzazione dei flussi di capitale? Anche stavolta la sensazione di impotenza sembra funzionale al mantenimento di quei paradisi a cui, primo o poi, in molti possono essere interessati a ricorrere. Ogni epoca, del resto, ha i suoi barbari.

Riccardo Evangelista

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

Se i maggiori paradisi fiscali sono oltreoceano, nel caso dell’Italia la situazione è in parte diversa e riguarda lo stretto rapporto delle società offshore nostrane con la confinante Svizzera, storicamente legata al segreto bancario. Con l’accordo reso noto lo scorso luglio la situazione sembra però cambiata. La Svizzera ha infatti accettato di fornire tutte le informazioni bancarie richieste dall’Italia.[/box]

Foto di copertina di eGuide Travel Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License

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Riccardo Evangelista
Riccardo Evangelista

Sono nato nel 1987 in provincia di Frosinone. Dopo una laurea triennale in Scienze Politiche e una magistrale in Sviluppo e Cooperazione, a inizio 2016 ho conseguito il dottorato di ricerca in Sviluppo economico: analisi, politiche e teorie presso l’Università di Macerata. Mi interesso disordinatamente di politica economica, storia dell’economia e teorie dello sviluppo. La mia passione per l’America Latina nasce identificandola con un sogno, troppo spesso infranto: quello di un mondo più giusto. Io, comunque, continuo a crederci. Tra gli hobby vanno annoverati la lettura, un attento apprezzamento per il cibo e una certa morbosità per il gioco del calcio (in televisione).

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