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L’Uganda e il successo delle politiche migratorie

La politica dell’Uganda, premiata dalla UNHCR come la più favorevole alla migrazione africana, rappresenta una vittoria nella gestione dei flussi migratori all’interno del continente africano. Mentre l’Europa riconosce il suo fallimento, il Governo ugandese fornisce diritti e doveri ai rifugiati trattandoli come attori economici e permettendogli di contribuire all’economia locale e integrarsi nel Paese, non più visto come terra straniera ma come punto di partenza per un futuro migliore

LA QUESTIONE DEI MIGRANTI − La gestione dei flussi migratori dall’Africa subsahariana e dai Paesi del MENA verso l’Europa può oramai essere considerata uno degli impegni maggiormente sentiti della comunità internazionale. Quest’ultima, nel giro di qualche anno, si è ritrovata a dover affrontare una crisi umanitaria che interessa soprattutto i paesi medio orientali e nord africani, con conseguente coinvolgimento dei paesi occidentali. L’Unione Europea, che si dichiara portavoce dei diritti dell’essere umano, della democrazia e della libertà, si è trasformata a partire dagli anni ’70 da continente di emigrazione a meta di immigrazione per tutti coloro che hanno visto nella bandiera a stelle dorate la destinazione finale del viaggio. Eppure, gli ideali di pace e uguaglianza tanto decantati dalle istituzioni europee e designati  pilastri della società moderna, sembrano venire meno quando si parla di immigrazione contemporanea.

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Fig. 1 – Un business redditizio ma mortale quello dei migranti che ogni giorno salpano dalle coste nordafricane per giungere in Europa. Un gruppo di migranti seduti nel porto di Tripoli, dopo un repentino salvataggio da parte della guardia costiera al largo della costa libica

IL FALLIMENTO EUROPEO  Dichiarando al mondo il fallimento delle politiche di accoglienza europee, l’Unione è stata additata come incapace di fornire garanzie ai nuovi migranti. Si assiste, dunque, allo smantellamento di diversi campi profughi in Francia e alla chiusura delle frontiere di un numero sempre maggiore di paesi europei come Danimarca, Svezia e Croazia. La conseguenza di questa politica repressiva è la nascita di sentimenti xenofobi che, seppur in contraddizione con l’etica europea dell’inclusione attirano l’attenzione delle classi politiche nazionali che sfruttano questa instabilità per condannare l’operato dell’Europa e per auspicarne una frattura intestina. Nonostante ciò, l’immigrazione non sembra voler rallentare la sua corsa: si continua a parlare, infatti, di sbarchi clandestini sempre più frequenti, di tensioni, spesso sfociate in risse tra la polizia e i rifugiati  alle frontiere e di campi profughi oramai saturi e  incapaci di gestire il flusso migratorio. I rifugiati, una volta giunti miracolosamente in Europa, devono sottostare a un iter burocratico lento e incapace di garantire diritti ai rifugiati. Basti pensare ai tanti hotspots creati dall’Unione in cui i profughi si trovano spesso a dover sostare anche per diversi mesi.

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Fig. 2 – La paura che attanaglia l’Europa porta ad emergere le frange politiche più estremiste. Farage nel Regno Unito o Marine Le Pen del Fronte Nazionale in Francia sono gli esempi più eclatanti della rotta populista che la politica europea sta seguendo

Il quadro generale che si delinea, dunque, permette di trarre delle conclusioni in merito al  fallimento delle politiche di accoglienza europee, causato principalmente dall’incapacità di elaborare un piano comune condiviso da tutti gli esponenti nazionali e supportato dalle alte istituzioni. La mancata condivisione degli oneri e le conseguenti responsabilità hanno comportato una crisi umanitaria di grandi proporzioni, alla quale è seguita in risposta la chiusura di molteplici frontiere nel vecchio continente.

IL CASO UGANDA − La policy europea, tuttavia, si scontra con quella (più efficiente) di altri Paesi: nazioni che seppure meno agiate economicamente rispetto a quelle occidentali, si sono dimostrate capaci di gestire l’imponente flusso migratorio, riuscendo a garantire pari diritti e doveri ad ogni rifugiato giunto in terra straniera. Tra queste, l’Uganda ha sempre ricoperto una parte di spicco. Stato dell’Africa orientale confinante con stati noti per i sanguinosi conflitti interni, l’Uganda ha da sempre vissuto il problema della migrazione, riuscendo a gestirne il flusso delle masse che spesso si trovavano costrette ad abbandonare il paese. Dal 2015, la Banca Mondiale ha riconosciuto l’Uganda terzo paese africano ospitante il maggiore numero di migranti, dopo l’Etiopia e il Kenya. Al giorno d’oggi, con più di mezzo milione di immigrati provenienti da 13 paesi , il campo profugo di Nakilave è l’ottavo al mondo con una capienza di 60.000 profughi. L’UNHRC (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati)  ha insignito l’Uganda come il paese più favorevole alla migrazione africana, grazie alla sua policy volta a instaurare una collaborazione tra la popolazione locale e i rifugiati in ambito economico, politico e sociale.

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Fig. 3 – Nuovi arrivati proventienti dal Sud Sudan in fila per essere registrati al centro d’accoglienza di Kuluba nel distretto di Koboko, a nord della capitale Kampala durante la visita del commissario europeo per la gestione delle crisi umanitarie all’Uganda, 11 novembre 2016. L’Uganda, uno dei paesi più poveri del continente, attualmente ospita 530.000 rifugiati del Sud Sudan, 330.000 fuggiti nell’ultimo anno a causa della guerra civile

La storia del Paese, segnata da conflitti interni, ha permesso alla popolazione, incluse le classi politiche più abbienti, di comprendere il sacrificio e la disperazione dei rifugiati che vivono sotto asilo politico (basti pensare che lo stesso Presidente ha vissuto una condizione di esilio fuori dal suo Paese). Proprio per questo motivo le istituzioni politiche nazionali hanno sviluppato una policy volta al soccorso immediato  per  tutti coloro che scappano da guerre o da rischi imminenti di morte,  ospitandoli nei propri confini e fornendo loro assistenza sanitaria.

UNA POLICY VINCENTE − Il Governo ugandese si impegna a fornire ospitalità immediata in stabilimenti rurali attrezzati. Ad ogni famiglia viene consegnato un lotto di terra da coltivare, permettendo non solo di ridurre la dipendenza dagli aiuti umanitari, ma anche per aiutare i rifugiati ad auto sostenersi. Inoltre, la condivisione delle terre nazionali tra rifugiati e locali alimenta la coesione sociale, voluta fortemente dal governo nazionale, il quale ha insistito nell’inserire il tema dei rifugiati nel piano di sviluppo nazionale (National Development Plan), interpretandolo come parte integrante del welfare interno.

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Fig. 4 – Nel distretto di Adjumani, in Uganda, i profughi sud sudanesi sono collocati in un centro di accoglienza permanente. Nonostante il ritorno di Riek Machar e la formazione di un governo di unità nazionale, le rappresaglie continuano e lasciano il paese per via dell’insicurezza economica, della fame e dell’assenza di opportunità

L’Uganda ha inoltre rivolto la sua attenzione alla gestione dei minori spesso non accompagnati, e che arrivano in numero sempre maggiore. Grazie agli investimenti è stato possibile fornire gli insegnamenti scolastici basilari a tutti i giovani scappati dalla guerra. Al giorno d’oggi, infatti, secondo i risultati pubblicati dalla UHNRC, l’83% dei bambini rifugiati è iscritta alle scuole primarie nazionali. Ad ogni rifugiato, poi, viene data la possibilità di lavorare nel paese e di aprire attività di business personale, contribuendo non solo a potenziare l’economia ma anche a incentivare l’integrazione sociale tra le comunità. Lo stato non pone limiti di movimento entro i suoi confini, permettendo ai rifugiati di muoversi liberamente nel Paese. Chi abbandona il centro profughi, rinunciando al titolo di rifugiato, però, ha il dovere di provvedere autonomamente alla ricerca di un alloggio e di un posto di lavoro, come fa il resto della popolazione ugandese.

Giuliana Scarpinati

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

L’Uganda ha dimostrato di essere un esempio di Paese ospitante, nonostante esso sia circondato da paesi la cui instabilità mina le sue sorti. Nonostante l’impegno nella politica di accoglienza, il paese rischia di non riuscire a sopperire al fabbisogno delle grandi masse migratorie, a causa delle continue lacerazioni interne che affliggono gli stati confinanti, soprattutto il Sud Sudan, la cui instabilità causa un’emigrazione continua. Solo una collaborazione internazionale volta a garantire la stabilità di un’area geografica da troppo tempo vittima di conflitti interni, permetterà al Paese di continuare a esercitare la sua policy volta al benessere di tutta la sua popolazione e di tutte le comunità ospitanti.[/box]

 

Foto di copertina di EU Humanitarian Aid and Civil Protection Rilasciata su Flickr con licenza Attribution-NoDerivs License

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Giuliana Scarpinati
Giuliana Scarpinati

Nata a Catania, classe 1992, ho da subito sviluppato un interesse per le lingue straniere grazie ai viaggi in Australia dove risiede parte della mia famiglia. Ho intrapreso una carriera universitaria volta ad approfondire le conoscenze linguistiche e culturali del mondo anglofono, ispanofono e nipponico. Trasferitami a Milano per continuare la specialistica, ho seguito il corso di Scienze Linguistiche per le Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore appassionandomi alla geopolitica. Mi sono laureata nel 2016 con  lavoro di tesi sulla situazione economica in Nigeria e le ragioni che hanno portato alla nascita del gruppo terroristico conosciuto con il nome di Boko Haram.

Ho approfittato del soggiorno milanese per lavorare con il consolato messicano nel padiglione  Messico in EXPO. Attualmente risiedo a Catania dove lavoro come traduttrice presso un’azienda farmaceutica americana.

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