Analisi – A seguito di un attentato a Kampala Uganda e Repubblica Democratica del Congo hanno avviato l’operazione Shujja per contrastare l’insurrezione delle Allied Democratic Forces (ADF) in Nord Kivu e Ituri. Il gruppo ribelle nato in Uganda e oggi affiliato all’ISIS rappresenta una grande minaccia, parte di tensioni latenti dal respiro regionale, che riguardano potere e risorse.
L’OPERAZIONE SHUJJA: RDC E UGANDA UNITE CONTRO I RIBELLI
L’Ituri e il Nord Kivu sono in stato di emergenza dal 6 maggio, una misura eccezionale per cui sono stati sostituiti gli amministratori civili con militari per combattere i principali gruppi armati nella zona, il Cooperative for Development of the Congo (CODECO) e le Allied Democratic Forces (ADF). A fine novembre, a seguito di un attentato a Kampala, l’esercito ugandese (UPDF) in concerto con quello congolese (FARDC) ha lanciato l’operazione Shujja (che significa “colui che è forte”, in lingua swahili) nell’est della Repubblica Democratica del Congo contro le ADF, ritenute direttamente responsabili dell’attacco. L’intervento ugandese ha generato preoccupazioni e critiche – tra cui quelle del premio Nobel per la pace Denis Mukwege – a causa della condotta del suo esercito durante la guerra civile in RDC tra il 1998 e il 2003, quando fu accusato di occupazione del territorio e di saccheggio di risorse. Per dissipare questi timori il Presidente congolese Félix Tshisekedi ha assicurato che farà in modo che la presenza delle truppe ugandesi sia limitata al tempo strettamente necessario per completare l’operazione ma restano dubbi sulla sua durata. Intanto le recenti offensive dei due eserciti hanno portato alla cattura di 35 terroristi dell’ADF e alla distruzione di diverse roccaforti.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Truppe ugandesi in pattugliamento nel Virunga National Park, dicembre 2021
DA ALLIED DEMOCRATIC FORCES A PROVINCIA DELL’ISIS
Le Allied Democratic Forces sono un gruppo ribelle emerso in Uganda, nato ufficialmente nel 1995, fusione tra il movimento musulmano di ispirazione salafita Tabliq e i resti del National Movement for the Liberation of Uganda (NALU) che si opponeva al presidente Yoweri Museveni. Il primo era dominato da religiosi istruiti in Arabia Saudita e il secondo da soldati che rifiutavano l’integrazione nel National Resistance Movement (NRM) del Presidente ugandese. Dopo la sconfitta per mano dell’esercito ugandese il gruppo si è ritirato nell’est del Congo, nelle montagne di Rwenzori, come fronte multietnico supportato dal Sudan e guidato dallo storico leader Jamil Mukulu. Oltre all’obiettivo principale di rovesciare il regime ugandese – da cui il richiamo a valori democratici nel proprio nome – l’ADF non ha mai avuto un programma molto definito e non è facile comprenderne gli obiettivi a causa di una identità camaleontica e di una grande capacità adattiva – nell’organizzazione e nell’ideologia. Dopo un lungo periodo ai margini, dal 2013-2014 l’ADF ha ripreso la propria attività e sotto la guida di Musa Baluku si è progressivamente legato allo Stato Islamico come parte della wilayat in Africa centrale. Dopo frequenti attacchi nel Nord Kivu dal 2020 ha iniziato a spostarsi sempre più a nord nella provincia di Ituri, dove la violenza che coinvolge prevalentemente le milizie di etnia lendu è in aumento, colpendo cittadini congolesi e forze militari regionali, stringendo legami con milizie hutu e uccidendo almeno 2mila civili dall’aprile 2017 (secondo i dati raccolti dall’osservatorio Kivu Security Tracker). Nel marzo del 2021 Gli Stati Uniti hanno designato questo gruppo come organizzazione terroristica straniera e in agosto Tshisekedi ha autorizzato l’intervento di forze speciali statunitensi contro questo gruppo. A oggi la fazione delle ADF legata allo Stato islamico è attiva nell’area di confine con l’Uganda con altri diversi gruppi armati, ma è tra i meglio forniti e più pericolosi grazie alla sua collaborazione con altri gruppi jihadisti della regione.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Una casa distrutta a un attacco delle Allied Democratic Forces a Beni, nella RDC, giugno 2021
DOCUMENTARI PER ORIENTARSI TRA NORD KIVU E ITURI
Nonostante sia datato 2014 il documentario Virunga di Orlando von Einsiedel racconta, attraverso le vicende dell’omonimo Parco Nazionale e dei gorilla di Montagna lì ospitati, la guerra scoppiata nel 2012 tra l’esercito congolese e un altro movimento ribelle, l’M23. Virunga parla di conflitti, specie a rischio, distruzione ambientale. Narra l’intersecarsi di vari livelli e sottolivelli di una realtà dove è difficile capire le ragioni di violenze e azioni criminali. Ma dipinge anche le storie di persone che fiduciose lavorano in direzione ostinata e contraria, tese verso la sicurezza e la pace. Un approccio simile lo ha anche il più recente documentario This is Congo del regista e fotografo Daniel McCabe, che illustra abilmente le dinamiche dello stesso conflitto sino al 2017, seguendo le vicende di quattro personaggi principali: un colonnello dell’esercito regolare che alterna fedeltà a diserzione, il colonnello Mamadou Ndala chiamato a combattere i ribelli a Goma, un sarto di un campo profughi e una trafficante di pietre preziose che viaggia tra RDC, Uganda e Ruanda. La pellicola descrive l’impatto della guerra sulle persone raccontando della vita e delle emozioni tra campi di battaglia e campi profughi. Il colonnello Mamadou, protagonista della vittoria sui ribelli del gruppo M23, inviato nel Nord Kivu a fronteggiare proprio quelle ADF viste sopra, perderà la vita a causa di un attentato attribuito a queste ultime ingaggiate da alcuni colonnelli dello stesso esercito congolese. Questi due documentari descrivono lucidamente il proliferare delle milizie, nate per molti motivi differenti (tensioni sociali, etniche, religiose, economiche) ma spesso dai legami e dai fini nebulosi e a volte incrociati proprio al potere incaricato di combatterle, con la costante presenza spettrale della corruzione e dell’influenza straniera.
Embed from Getty ImagesFig. 3 – Il Presidente della RDC, Felix Tshisekedi (a sinistra), con il Presidente dell’Uganda Yoweri Museveni
LE IMPLICAZIONI DELL’INTERVENTO E GLI INTERESSI EUROPEI
Orientarsi è molto complesso, per molteplici ragioni. Tra le tante si aggiungano le tensioni regionali che rimandano a un passato coloniale e ai recenti scontri post-coloniali, risalenti a guerre civili transnazionali mai del tutto risolte e che anzi sembrano aver preso la forma di guerre per procura. In questo contesto l’intervento militare ugandese assume un significato delicato e particolare, perché potrebbe determinare un inasprimento delle tensioni con il Ruanda, già accusato di assistere gruppi ribelli. Un eventuale intervento diretto ruandese in RDC – ad esempio contro i ribelli hutu – sarebbe indicativo di un aggravamento delle tensioni regionali e potrebbe implicare il rischio di un ulteriore conflitto. In Uganda la stretta repressiva operata sull’ADF potrebbe ispirare altri attacchi compiuti da individui collegati all’organizzazione e favorire il reclutamento per il fronte jihadista, in un momento in cui le tensioni politiche nazionali stanno ribollendo dopo le ultime elezioni contestate. Per ciò che interessa l’Italia, la Saipem ha stipulato accordi per partecipare alla costruzione dell’East African Crude Oil Pipeline (EACOP) – con la garanzia di SACE, – che con i suoi 1.443 chilometri di tubature parte dai pressi del Lago Alberto, proprio al confine tra RDC e Uganda in un’area di attività dei gruppi armati, e arriva fino al porto di Tanga in Tanzania. I principali giacimenti sono il Kingfisher, gestito dalla China National Offshore Oil Corporation Ltd (CNOO Ltd), e il Tilenga, in capo alla francese Total. Lo sviluppo del progetto petrolifero potrebbe rappresentareun fattore d’attrazione per le milizie, tale da portare il bacino operativo delle stesse ADF verso il Lago Alberto. Ipotesi che appare confermata anche dall’incremento quantitativo degli attacchi nel distretto di Irumu. Uno scenario che si preannuncia foriero di ulteriori violenze e danni ambientali su risorse che supportano la pesca, il turismo e altre attività economiche, importanti per la sicurezza alimentare e idrica. L’est della RDC continua a essere crocevia di conflitti e dinamiche di potere per i quali la popolazione che abita una terra ricchissima – di coltan, cobalto, oro, diamanti, petrolio – è costantemente impoverita, costretta a vivere in ostaggio di milizie armate, eserciti, multinazionali ed élite predatorie, provando in qualche modo a gestire la quotidianità. La coscienza collettiva europea è sembrata risvegliarsi dopo l’uccisione di Luca Attanasio, Mustapha Milambo e Antonio Iacovacci, ma ora su questo conflitto sta calando di nuovo la notte. L’intervento in situazioni problematiche viene delegato ad ambiziose potenze regionali con le loro agende politiche e i loro interessi. Intanto la minaccia jihadista in Africa aumenta e con essa l’approccio esclusivamente securitario e i colpi di Stato militaristi.
Daniele Molteni
“Parc National des Virunga, Nord-Kivu, RD Congo, 09 janvier 2015 : Vue partielle d’une chaîne de montagnes, avec un cours d’eau qui dévale la vallée en cascades avant de se jeter dans le lac Edouard.” by MONUSCO is licensed under CC BY-SA