Analisi – A quasi un mese dalla morte di Idriss Déby continuano le proteste per la democrazia in Ciad, con rischi securitari dal respiro interno e internazionale che vanno ad aggiungersi a quella che è una crisi multidimensionale forse sottovalutata, ma che, proprio mentre si avvia un processo di pace in Libia, resta aperta.
LA MOBILITAZIONE CONTRO LA GIUNTA
A N’Djamena continuano le proteste e gli scontri tra polizia e manifestanti, che lamentano l’egemonia di un clan molto influente – quello di Déby – e una situazione di quasi dominio di un partito unico e dei militari confermato dalle personalità nominate nel Governo di transizione. La popolazione rifiuta quello che l’opposizione ha definito un “colpo di Stato istituzionale” da parte di Mahamat Déby Itno, figlio di Idriss, morto secondo la versione ufficiale per mano dei ribelli, ma in circostanze misteriose, a seguito dell’ennesima missione militare guidata in prima persona (più che altro per presentarsi come leader guerriero: già l’anno scorso aveva fatto lo stesso contro i jihadisti vicino al Lago Ciad). Da fine aprile centinaia di manifestanti sono stati arrestati e si contano diversi morti a causa della repressione, prontamente condannata dalla OHCHR, la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite.
La morte di Déby e la svolta anticostituzionale hanno quindi risvegliato la società civile, che teme oggi il materializzarsi dello spettro di un regime militare – nonostante la nomina di un Primo Ministro civile, molto vicino all’entourage del Presidente – e vuole cogliere l’occasione per ottenere un cambiamento in senso realmente democratico.
Fig. 1 – Nuvole di fumo causate dalla combustione di pneumatici per strada durante gli scontri tra i manifestanti e la polizia ciadiana a N’Djamena, il 27 aprile 2021
I RISCHI IMMEDIATI PER LA SICUREZZA
La premessa è che la situazione è in un equilibrio fragile. In aggiunta alle proteste da parte della società civile i rischi per la sicurezza sono due: una ripresa delle ostilità da parte dei ribelli e la disaffezione di una parte dei militari verso il Conseil Militaire de Transition (CMT). Per quanto riguarda il primo punto i ribelli dati per sconfitti – per motivi di propaganda – potrebbero riorganizzarsi e lo scontro potrebbe riprendere. Riguardo al secondo punto, invece, il rischio è vedere divisioni nelle Forze Armate, non solo tra gli alti ufficiali, ma anche tra gli elementi rango inferiore, in quanto non tutti sono favorevoli alle personalità della giunta e all’egemonia di alcuni. Tuttavia, e nonostante questi rischi, non sembra esserci la prospettiva di un fronte unito di queste voci dissidenti (ribelli, militari e società civile) e l’opposizione politica interna ha rigettato la possibilità di prendere le armi contro il CMT, distanziandosi dai ribelli.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Soldati ciadiani in parata mentre ritornano dal fronte dove hanno combattuto l’avanzata dei ribelli, N’Djamena, 9 maggio 2021
IL NODO LIBICO E LE RELAZIONI INTERNAZIONALI
A proposito dei ribelli, quelli del Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (FACT), che hanno avviato l’azione in Ciad nella prima metà di aprile per deporre Déby e ottenere una alternanza al potere, hanno operato per molto tempo nel Darfur, fino all’accordo di pace tra Sudan e Ciad del 2010, dopo il quale si sono spostati in Libia, integrandosi nel caos della guerra civile e svolgendo principalmente il ruolo di mercenari con l’appoggio anche del Gruppo Wagner. Il FACT, unico gruppo ad aver deciso per l’incursione armata contro Déby, è stato anche vicino al colonnello Khalifa Haftar: in cambio della protezione di basi aeree e infrastrutture i ribelli si sono garantiti equipaggiamento e beni, armi e veicoli – molti dei quali forniti da donatori stranieri. Il paradosso è che Haftar, appoggiato anche dalla Francia, era a sua volta considerato alleato di Déby. Ricapitolando, la Francia ha supportato Déby e Haftar e quest’ultimo a sua volta ha supportato, più o meno indirettamente, i ribelli armati avversi a Déby.
L’operazione del FACT ha seguito l’inizio del recente processo di transizione libica che ha come punto fondamentale la partenza di tutte le forze straniere, tra le quali rientrano quelle ribelli ciadiane. Ora, come si possono rimuovere queste forze dalla Libia senza un processo di pace aperto nel loro Paese? È davvero possibile un ritiro di tutti i mercenari stranieri, che sono piuttosto numerosi? Allo stesso modo sono molteplici le sigle di ribelli ciadiani che nonostante la dimensione rilevante e il nemico comune restano, fortunatamente per il Governo del Ciad, divisi al loro interno.
Per la Francia rimane aperto il dilemma se dare appoggio al CMT, de jure illegittimo – e finora tiepidamente “condannato”, – mantenendo così un alleato vitale, ma rischiando di aumentare il sentimento antifrancese molto diffuso nel Sahel, oppure osteggiarlo in nome di accountability e democrazia. All’Eliseo provare l’efficacia della strategia nel Sahel resta una questione importante per le prossime elezioni presidenziali, che vedranno probabilmente Macron in un testa a testa con Marine LePen in un clima già piuttosto teso.
Mentre la Francia valuta, gli Stati Uniti condannano e la Turchia si congratula, Mahamat Déby Itno tesse la rete di relazioni per assicurare e assicurarsi supporto nella regione, partendo da Niger e Nigeria.
Fig. 3 – Mahamat Idriss Déby insieme al Presidente francese Emmanuel Macron partecipa ai funerali di Stato in onore del defunto Presidente Idriss Déby a N’Djamena, il 23 aprile 2021
UNA CRISI MULTIDIMENSIONALE
Alle problematiche sopra elencate si aggiunga anche l’insurrezione jihadista, pronta a sfruttare la debolezza istituzionale: a lungo vista come unica minaccia nella zona, ha contribuito alla miopia verso altre fragilità a causa di limitate lenti antiterrorismo contro gli islamisti.
Resta il fatto che a molti attori, Francia su tutti, conviene che il Ciad rimanga una sorta di “Sparta d’Africa”, un bacino di rifornimento costante di truppe ben addestrate da mobilitare nella guerra contro i jihadisti e non solo, per la sicurezza dei propri interessi. Il vaso di Pandora che si è aperto sta facendo emergere però dinamiche regionali che trascendono la mera lotta all’estremismo islamista e ai ribelli oltre confine. Si ricordi solo che la corruzione, l’esclusione politica, la crescente disparità e la repressione del dissenso sono stati a lungo problemi accantonati in Ciad, che non a caso si colloca al 187° posto su 189 Paesi nello Human Development Index dell’UNDP.
A meno che tali questioni non vengano affrontate con serietà, l’instabilità del Ciad avrà ampie ripercussioni regionali, considerata la posizione strategica di collegamento con l’Africa centrale e occidentale, con il Sudan e il Maghreb. Le sorti del Ciad influenzano già diversi conflitti: nel bacino del Lago Ciad, in Libia, nel Darfur, nella Repubblica Centrafricana e nel Sahel occidentale.
In ultima analisi l’auspicio è che i diversi fattori di rischio presentati non emergano a esacerbare la crisi, con la complicità di diverse potenze (Francia, USA, Turchia, Russia ed Emirati su tutti), mentre è accesa la fiammella della speranza nella vicina Libia dopo dieci anni di guerra civile.
Daniele Molteni
“London Conference on The Illegal Wildlife Trade” by Foreign, Commonwealth & Development Office is licensed under CC BY