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Il caso Haradinaj: vecchie e nuove tensioni tra Belgrado e Pristina

Lo scorso 4 gennaio è stato arrestato in Francia l’ex Premier kosovaro Ramush Haradinaj, sul quale pende un mandato di cattura internazionale spiccato dalla Serbia. Proseguono le frizioni tra Belgrado e Pristina sul tema dei crimini di guerra

RAMUSH HARADINAJ: UNA STORIA CONTROVERSA Per comprendere a pieno la figura di Ramush Haradinaj, e, soprattutto, la rilevanza della sua biografia nelle varie fasi delle relazioni tra Pristina e Belgrado, la mera lettura degli esiti delle vicende giudiziarie internazionali che lo hanno visto protagonista nel corso degli anni passati risulta essere sì utile, ma tutt’altro che sufficiente.
Ex comandante dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo) e, una volta deposte le armi, transitato alla politica partitica quale co-fondatore di AAK (Alleanza per il Futuro del Kosovo), Haradinaj viene nominato Primo Ministro a Pristina sotto l’amministrazione ONU nel dicembre del 2004. Si dimette da tale carica, tuttavia, dopo soli cento giorni, a seguito delle gravi accuse mossegli dall’ICTY (Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia): quelle di essere responsabile di una pluralità di crimini di guerra e contro l’umanità, per un totale di 37 capi d’imputazione. Viene processato ed assolto una prima volta nel 2008, arrestato di nuovo due anni dopo, in seguito all’accoglimento del ricorso presentato dalla procura generale motivato dall’attività intimidatoria nei confronti dei testimoni e, infine, prosciolto definitivamente per insufficienza di prove nel novembre del 2012.

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Fig. 1 – Ramush Haradinaj lascia la prigione di Colmar (Francia) circondato dalle forze dell’ordine, 12 gennaio 2017

Considerato un eroe nazionale a Pristina e Tirana, ed un efferato criminale a Belgrado, Ramush Haradinaj è stato l’uomo che l’UNMIK (Amministrazione provvisoria ONU in Kosovo) aveva scelto come interlocutore privilegiato nelle prime fasi successive al cessate il fuoco, ma anche, al di là delle attenzioni della procura dell’ICTY, il protagonista di un’inchiesta da parte di una commissione del Consiglio d’Europa che, nel gennaio 2011, aveva documentato il macabro traffico di organi espiantati a prigionieri di guerra serbi, rom e kosovaro-albanesi “collaborazionisti”, sommariamente giustiziati a colpi d’arma da fuoco, ordito dai vertici dell’UCK.
Indipendentemente dal dispositivo della sentenza del 2012, sulla storia processuale di Haradinaj grava l’alone sinistro che accomuna il destino di una vasta parte di coloro i quali erano stati chiamati a testimoniare: si contano almeno una decina di morti violente, oltre ai summenzionati condizionamenti che hanno convinto altrettanti individui dall’astenersi dal parlare o a ritrattare le proprie dichiarazioni espresse in aula.

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Fig. 2 – Proteste dei sostenitori di Haradinaj di fronte l’Ambasciata francese a Tirana, 11 gennaio 2017

IL MANDATO DI CATTURA INTERNAZIONALE L’assoluzione definitiva di Haradinaj, come prevedibile, aveva subitaneamente diviso la comunitĂ  internazionale: tra la preoccupazione della Russia, espressa tramite l’Ambasciatore presso le Nazioni Unite Vitalij Churkin e l’estrema prudenza dell’UE manifestata dal “no comment” di Stefan Fule, allora Commissario Europeo per l’Allargamento, emergeva la posizione di vivo sdegno da parte della Serbia, decisa a proseguire quello che ormai era divenuto un vero e proprio braccio di ferro con l’Aja, oltre che con Pristina.
Già nel giugno del 2015, infatti, l’ex Primo Ministro del Kosovo veniva fermato a Lubiana in virtù di un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra emesso dalla Serbia, salvo poi essere rilasciato dopo ventiquattro ore, avendogli il Governo della Slovenia riconosciuto l’immunità diplomatica per il transito del Paese, come da Convenzione di Vienna del 1961.
Lo scorso 4 gennaio, invece, l’Interpol è intervenuta in Francia, presso l’aeroporto di Bale-Mulhouse, arrestando nuovamente Haradinaj. Il 12 dello stesso mese, la Corte d’Appello della città di Colmar ha provveduto ad autorizzare la sua scarcerazione, previa cauzione, ritiro del passaporto e richiesta di non lasciare il Paese, fintantoché il nuovo mandato di cattura emesso da Belgrado non verrà esaminato. Nella richiesta di estradizione si fa riferimento ad una serie di fattispecie criminose diverse da quelle già passate in giudizio dal Tribunale Penale per la ex Jugoslavia, relative al periodo tra il marzo e l’ottobre del 1998. In particolare, i procuratori serbi avrebbero raccolto documenti e testimonianze concernenti le attività commesse da Haradinaj nel giugno del 1999 quando, proprio nel periodo in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottava la Risoluzione 1244 volta a statuire la fine delle ostilità e l’inizio dell’amministrazione provvisoria del Kosovo, l’allora comandante UCK si sarebbe macchiato di ulteriori episodi di tortura e uccisione di civili, prevalentemente serbi, ma anche rom e albanesi.

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Fig. 3 – Ben Emmerson, avvocato di Haradinaj, parla alla stampa dopo la sentenza di assoluzione da parte dell’ICTY, 29 novembre 2012

All’indomani dell’arresto di Haradinaj, il Presidente serbo Tomislav Nikolic ha annunciato di aver rinunciato a passare la vigilia del Natale ortodosso presso la cittadina di Strpce, situata nel sud del Kosovo e popolata da una nutrita comunità serba, attribuendo l’annullamento del viaggio all’atteggiamento ostile pervenuto dalle autorità di polizia di Pristina.Di contro, nella stessa giornata, il suo omologo del Kosovo, Hashim Thaci, ha pubblicato un post sui maggiori social network, lodando l’azione dell’Esercito di Liberazione del Kosovo e sottolineandone il ruolo campale nella lotta contro il regime di Slobodan Milosevic.

BELGRADO-PRISTINA: MURO CONTRO MURO La vicenda di Haradinaj è oltremodo emblematica, nella sua complessità e nelle sue contraddizioni, di una fattispecie problematica perdurante ormai da quasi venti anni e su cui la distanza tra Serbia e Kosovo resta al momento incolmabile. Le relazioni tra i due Governi hanno, infatti, conosciuto anche passi avanti non indifferenti, come gli accordi sottoscritti a Bruxelles nel 2013, ma, da tale sofferto compromesso, tuttavia, è rimasta esclusa totalmente la cooperazione in materia di giustizia transnazionale e crimini di guerra.

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Fig. 4 – Manifestanti del Partito Radicale Serbo bruciano la bandiera kosovara all’indomani dell’assoluzione di Haradinaj, 30 novembre 2012

Belgrado e Pristina continuano a perseguire due politiche totalmente distinte, sul tema: ambedue si sono premurate a inizio secolo di istituire procure speciali per i crimini di guerra, le cui giurisdizioni sono però limitate, formalmente, ai rispettivi confini, rendendo vane la maggior parte delle rispettive azioni accusatorie. La procura del Kosovo ha, negli ultimi anni, inoltrato diversi mandati di cattura internazionale diretti ad ex combattenti, regolari o meno, risiedenti in Serbia, che però non sono stati recepiti dal Governo di Belgrado: tra questi, spicca quello del 2015 diretto a Momir Stojanovic, ex generale di stanza a Djakovica durante la guerra ed attualmente deputato nelle fila del Partito Progressista Serbo. Mentre, dall’altra parte, quello di Haradinaj è l’unico mandato emanato da Belgrado che abbia prodotto almeno il fermo dell’accusato, stante la diffidenza, da parte degli organi di giustizia dei Paesi europei, verso l’ufficio della procura serbo e la sua capacità di giudizio imparziale nei confronti di eventuali accusati provenienti dal Kosovo. Tale atteggiamento, mal digerito in passato da Belgrado, ha portato l’attuale Governo in carica ad adottare un tono sopra le righe nei confronti della Francia sollecitandone la decisione circa l’estradizione di Haradinaj e minacciando contromisure in caso di mancata accettazione della richiesta. Una condotta che, al di là delle relazioni bilaterali con Parigi, rischia di rendere più arduo anche il cammino verso l’integrazione europea: a luglio scorso sono stati aperti, per la Serbia, i capitoli 24 e 25 dell’acquis comunitario, ovvero quelli concernenti magistratura, diritti fondamentali, giustizia e sicurezza. Tale rapporto conflittuale con i Paesi europei, unito alla summenzionata assenza di coordinamento con il Kosovo, rischia di rendere estremamente in salita i negoziati per Belgrado e di rallentarne l’agognato ingresso nell’Unione Europea.

Riccardo Monaco

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂą

Gli attriti in tema di giustizia tra Serbia e Kosovo non hanno impedito, sul versante internazionale, l’istituzione del nuovo Tribunale Speciale di Guerra, operativo dal 1 gennaio del 2017. Tale organo avrà giurisdizione sui crimini contro l’umanità, crimini di guerra ed altri crimini, giudicando in base alla legislazione del Kosovo, in relazione al già menzionato rapporto presentato all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa il 7 gennaio del 2011. Il tribunale ha nominato come suo primo presidente Ekaterina Trendafilova, professoressa di diritto penale internazionale a Sofia e giudice della Corte Penale Internazionale tra il 2006 e il 2015.
Il ruolo di Procuratore Speciale del tribunale sarà, invece, rivestito da David Schwendiman, avvocato americano e già pubblico ministero federale negli Stati Uniti, nonché procuratore presso il dipartimento speciale per i crimini di guerra della Bosnia-Erzegovina tra il 2006 e il 2009.[/box]

Foto di copertina di ictyphotos rilasciata con licenza Attribution License

 

 

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Riccardo Monaco
Riccardo Monaco

Nato e cresciuto a Roma, ho conseguito la laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso La Sapienza. Dopo un periodo trascorso a Belgrado, ho iniziato un dottorato in Storia dell’Europa, con un progetto di ricerca dedicato alla politica estera della Jugoslavia dagli anni ’70 alla morte di Tito. Inoltre, ho conseguito un diploma in Sviluppo e Cooperazione Internazionale presso la Summer School dell’ISPI e un Master di specializzazione dedicato alla progettazione europea e all’internazionalizzazione d’impresa presso la SIOI.

A distanza di diversi anni dagli studi, rimango ancora convinto del ruolo centrale delle scienze politiche per la comprensione delle dinamiche attuali, ragion per cui sono tutt’ora un appassionato di geografia politica e di storia delle relazioni internazionali, con particolare riguardo per il periodo della guerra fredda e per un’area nevralgica quale quella dei Balcani occidentali.

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