Il referendum costituzionale tenutosi il 16 aprile in Turchia si conclude con una risicata vittoria per Erdogan. Il margine è strettissimo e il Paese rimane profondamente diviso mentre scivola verso l’autoritarismo
IL VOTO – Domenica 16 aprile in Turchia si è svolto un referendum per decidere se modificare o meno la Costituzione in senso presidenziale. L’affluenza è arrivata all’85%, segno che i cittadini turchi hanno pienamente compreso la rilevanza della posta in gioco. La riforma era sostenuta dall’AK Parti (Partito della Giustizia e dello Sviluppo, di tendenza islamista) del Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan e dal MHP (Partito di azione nazionalista). Il risultato finale ha visto il Sì prevalere con il 51,4% dei consensi (25.156.860 voti) contro il 48,6% del No (23.777.014 voti). È degno di nota che le principali città del Paese abbiano votato contro la riforma: Istanbul, Ankara, Smirne, Diyarbakir. Le opposizioni hanno accusato il partito al potere di brogli, mentre l’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) in un suo rapporto ha affermato che il voto non rispetta gli standard internazionali indicando come la campagna elettorale sia stata squilibrata, i diritti delle opposizioni sono stati calpestati e lo scrutinio delle schede ha seguito regole discutibili.
Fig. 1 – Il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan
L’IMPORTANZA DELLA RIFORMA – Gli aspetti toccati dalla riforma costituzionale sono significativi (vedi il “Chicco in più”). Si tratta di un obiettivo perseguito da Erdogan da 15 anni, da quando cioè l’AKP raggiunse il potere mediante elezioni democratiche. La forma di Governo prevista dalla Costituzione attuale risale al 1980 ed è stata ispirata dalla giunta militare che in quell’anno aveva preso il potere grazie ad un colpo di Stato. Modificarla radicalmente è sempre stato un obiettivo degli islamisti turchi. Oltre a queste motivazioni bisogna tenere presente l’ambizione personale di Erdogan, deciso ad assumere le vesti di un moderno Sultano. Con la riforma la Turchia smette di essere Repubblica parlamentare e diventa Repubblica presidenziale, senza tuttavia prevedere un adeguato sistema di pesi e contrappesi dato l’elevato numero di nomine ora consentite al Presidente stesso. Le riforme entreranno in vigore a partire dalle prossime elezioni, previste per il 2019. Erdogan stesso, grazie alla riforma, avrebbe la possibilità di rimanere al potere almeno fino al 2029. Fino a pochi mesi fa questo scenario non era per nulla scontato e nemmeno il più probabile. All’inizio dell’estate 2016 la situazione in Turchia era bloccata ed estremamente tesa; Erdogan forte politicamente ma non abbastanza da imporre la propria riforma al Parlamento.
IL PESO DEL GOLPE – La sera del 15 luglio 2016 una fazione delle Forze Armate turche ha tentato un colpo di Stato per deporre il Presidente Erdogan. In quella frenetica e drammatica notte alcune emittenti USA riportarono la notizia che il Sultano ormai in disgrazia fosse in fuga a bordo del suo aereo diretto verso l’Europa alla disperata ricerca di asilo. Le stesse cancellerie occidentali, pur preoccupate per l’incertezza che ne sarebbe scaturita, erano in attesa di confermare l’uscita di scena del Presidente. Ma col passare delle ore divenne chiaro che la reazione popolare aveva fatto fallire il golpe e all’alba si è avuta conferma che Erdogan ne era uscito trionfante e la sua presa sullo Stato rafforzata. Forse non conosceremo mai la vera dinamica del tentativo di colpo di Stato. Alcuni accusano addirittura il Presidente di averlo orchestrato a tavolino per rafforzare il suo potere e giustificare un’ampia repressione, per quanto tali considerazioni rimangano ad oggi speculazioni senza prove. Quello che davvero conta è che il fallito golpe ha permesso a Erdogan di trovare lo slancio finale per portare la riforma costituzionale da lui tanto agognata davanti al giudizio degli elettori. In questo senso il 15 luglio potrebbe aver segnato il vero punto di non ritorno per la Turchia.
Fig. 2 – Il 15 luglio 2016 in Turchia è fallito un golpe militare
LO SCENARIO INTERNO… – Il Paese tuttavia rimane profondamente diviso. Sulla carta il fronte del Sì ha vinto e certamente Erdogan dimostra di avere un ampio consenso, nato soprattutto da alcuni fattori non sempre ben compresi in Occidente: non bisogna dimenticare che negli ultimi 15 anni il PIL turco è cresciuto moltissimo, in certi periodi addirittura a ritmi cinesi. Il decollo economico del Paese, dovuto in gran parte alle politiche dei Governi AKP, ha avuto poi l’indiscusso merito di beneficiare anche le classi sociali del Paese più umili, in particolare quelle all’interno della penisola anatolica. Inoltre gli islamisti al potere si sono impegnati ad allentare il laicismo imposto dalle élite kemaliste, guardato con sospetto e ostilità dal cuore del Paese, più conservatore. Questi fattori hanno consentito a Erdogan di crearsi uno zoccolo duro di sostenitori sufficientemente ampio e fedele da consentirgli di rimanere al potere nonostante i suoi numerosi passi falsi in politica interna e, soprattutto, estera. Il problema del “Sultano“ però è che ha anche polarizzato l’opinione pubblica. Infatti, mentre metà del Paese lo ama, l’altra metà lo detesta. Inoltre lo stato di guerra civile in cui vive il Sud-est dell’Anatolia (a maggioranza curda) rappresenta un tragico monito dei rischi che corre la Turchia. Inoltre peggiora la situazione interna il caos ormai cronico della regione mediorientale (Siria in primis), che sta importando instabilità nel Paese.
Fig. 3 – Sostenitori del Presidente Erdogan festeggiano l’esito del referendum
… E QUELLO INTERNAZIONALE – La Turchia fino a pochi anni fa era considerata un alleato fedele dell’Occidente, se non addirittura un membro effettivo. Ankara infatti fa parte della NATO dal 1952 e ha in cantiere un negoziato per aderire all’UE. Ma almeno dal 2013 (anno delle famose proteste in Piazza Taksim) i rapporti della Turchia con l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno visto un rapido deterioramento. Il “Sultano” però rimane ad oggi un attore fondamentale nella regione sia per la NATO sia per l’UE (basti pensare all’accordo sui migranti di Aprile 2016) e al di là di generiche dichiarazioni di critica – oltre a un eventuale formale stop al negoziato di adesione, comunque di fatto già immobile da tempo – non sembrano esserci margini di influenza per cambiare il percorso in atto.
E ADESSO? – Erdogan sa che la scelta teoricamente migliore per il Paese sarebbe quella di abbassare i toni, tendere una mano agli avversari e provare ad avviare un dialogo e per giunta da una posizione di forza ma al momento non sembra voglia scegliere questa strada. Ha già condannato il rapporto OSCE così come ogni critica e per quanto la sua vittoria sia risicata di fatto ha ottenuto il suo risultato – deve solo evitare qualcuno provi a cambiarne l’esito. Difficile dunque che la pressione su stampa e opposizioni si riduca, mentre sembra probabile l’ulteriore riduzione dell’influenza del movimento Hizmet del suo rivale Fethullah Gulen, così come l’uso di tale scusa (la fedeltà a Gulen) per imprigionare critici e avversari politici indipendentemente dal fatto che sia vero o no. L’obiettivo ultimo era ed è quello di rendere la Turchia una grande potenza con lui saldamente al comando, un sogno definito da alcuni analisti neo-ottomano. Rimane però un Paese diviso, con sempre meno contrappesi al potere presidenziale e sempre maggiore rischio di disordini civili.
Davide Lorenzini
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
La riforma costituzionale, approvata dal Parlamento e confermata dal referendum del 16 aprile, trasforma la Turchia in Repubblica presidenziale. Scomparirà la figura del Primo ministro. Il Presidente della Repubblica potrà nominare e revocare i ministri, varare decreti esecutivi senza l’approvazione del Parlamento, nominare 6 membri su 13 dell’organo direttivo della magistratura, i vertici delle Forze Armate e dei servizi segreti e i rettori delle università. Inoltre vengono alzati i quorum necessari per mettere il Presidente in stato d’accusa.
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