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Le sfide dell’Iraq di oggi

In 3 sorsi Con le prossime elezioni parlamentari all’orizzonte, molteplici sono le sfide cruciali che l’Iraq deve affrontare, tra le quali primeggiano la battaglia contro lo Stato Islamico, la questione curda, il ruolo delle milizie sciite veicolanti l’influenza iraniana nel Paese e non ultima la gestione della presenza delle truppe internazionali sul suolo iracheno

1. UN TERRITORIO DIVISO – A partire dalla proclamazione del sedicente califfato islamico da parte di Abu Bakr al-Baghdadi dalla Moschea di al-Nuri a Mosul nel giugno 2014, i miliziani di Da’esh hanno occupato la parte centro occidentale del Paese contigua alla Siria. I territori sotto il controllo dello Stato Islamico hanno alternato estensioni e ridimensionamenti, questi ultimi dovuti all’offensiva delle forze di Baghdad, delle milizie sciite, delle forze curde e della coalizione internazionale (vedi ‘Un chicco in più’). L’attuale situazione del califfato in Iraq appare alquanto critica: tutte le grandi città irachene sono fuori dal controllo di Da’esh, fatta eccezione per Mosul, dove gli adepti di al-Baghdadi si trovano però alle corde. La battaglia per Mosul, nella quale è coinvolta la coalizione internazionale capitanata dagli Stati Uniti d’America, logora la terza città irachena da ottobre 2016. Fonti ufficiali irachene riportano la determinazione di liberare la città entro il 10 giugno, terzo anniversario della sua occupazione, o comunque prima della fine del Ramadan. In risposta alla recente offensiva lanciata dalle forze irachene per riconquistare gli ultimi quartieri di Mosul ancora sotto il controllo del Califfato, gli uomini di Da‘esh hanno colpito il cuore dello stato iracheno, Baghdad. Nella notte di martedì 30 maggio, un’autobomba è esplosa davanti a una gelateria nel centro della città, nel quartiere di Karrada, causando almeno quindici vittime, oltre a decine di feriti. L’attacco è stato prontamente rivendicato dai vertici dello Stato Islamico, che tramite l’Agenzia di Informazione Amaq hanno annunciato di aver diretto l’attentato verso un raduno di Sciiti. Questa logica settaria non può che portare a un ulteriore peggioramento delle profonde fratture che solcano la società irachena, contribuendo ad alimentare quel clima di ostilità e divisione di cui lo Stato Islamico si è sempre servito per radicarsi in questo complesso tessuto sociale. Progettare un attacco simile durante il Ramadan ha un valore simbolico, nonché una propria ratio strategica, poiché dopo il tramonto e la fine del digiuno numerose sono le famiglie che affollano le strade in quello che dovrebbe essere un clima di festa. Poche ore dopo la prima, una seconda autobomba ha colpito l’area limitrofa al ponte al-Shahada, nelle vicinanze di un ufficio governativo, provocando almeno otto vittime e una trentina di feriti. Nonostante manchi ancora una rivendicazione ufficiale, si sospetta che anche questo attacco sia stato perpetuato dagli uomini di Da‘esh.

I territori nella parte settentrionale del Paese, costituenti il cosiddetto Kurdistan iracheno, rimangono invece prerogativa pressoché totale delle forze curde, a partire dalla no-flight zone ivi istituita dalla risoluzione Onu 688 nel 1990. Rimane aperta la questione delle cosiddette ‘disputed areas’, ovvero quelle zone contese tra il controllo di Baghdad e quello di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. Tra queste figura Kirkuk, materia di conflitto a causa dei suoi giacimenti petroliferi e il cui status potrebbe presto essere oggetto di referendum popolare. Affermare che il resto del Paese risulti invece sotto l’autorità di Baghdad appare alquanto azzardato, poiché il controllo del governo centrale non è certo omogeneo. Varie zone sono infatti sottoposte al controllo delle milizie sciite delle Unità di Mobilitazione Popolare (PMU). Nata nel 2014 dopo l’incoraggiamento del Grande Ayatollah ‘Ali al-Sistani alla battaglia contro lo Stato Islamico, nel 2016 questa compagine di milizie sciite è entrata a pieno titolo nelle forze armate irachene, con funzioni comparabili a quelle di un’unità di antiterrorismo. Tuttavia, la forte influenza iraniana sul PMU, così come le velleità politiche di molti suoi esponenti sdoganano numerosi interrogativi sull’effettivo controllo esercitato da Baghdad su questa forza.

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Fig. 1 – Esterno della moschea Jalil Khayat a Erbil

2. UN’ANALISI POLITICA – Analizzare la situazione politica attuale in Iraq è un compito alquanto arduo, considerando innanzitutto che stiamo trattando di uno Stato la cui sovranità territoriale è stata violata dalla (seppur non riconosciuta) costituzione di uno Stato terzo, sovranazionale, all’interno dei suoi confini. Ciò ha determinato l’ennesimo intervento internazionale, seguito dalla permanenza di truppe straniere sul territorio iracheno. In una recente intervista su Fox News Sunday, il premier Haider al-Abadi ha definito necessaria la presenza delle numerose truppe USA dedicate al training dell’intelligence irachena e al mantenimento dell’ordine, accennando inoltre a una diminuzione, ma non eliminazione, della presenza americana nel prossimo futuro. Ciò non gli ha però impedito di far leva su ciò che definisce il forte sentimento nazionalista della popolazione irachena, escludendo qualsiasi futura violazione della sovranità del proprio Stato. In questo sicuramente gioca un ruolo la forte influenza iraniana, sempre più presente nella politica irachena attraverso il crescente potere delle milizie sciite. Dopotutto, il governo sciita di Baghdad non gode certo di un consenso trasversale. Se nel periodo 2013-2014 lo Stato Islamico è riuscito, dopo un periodo di calma apparente durato anni, a diventare una minaccia fondamentale, ciò è avvenuto anche a causa del diffuso malcontento sunnita nei confronti di una leadership sciita propensa a marginalizzare tale ingente minoranza che fino alla caduta di Saddam Husayn ha tenuto le redini del Paese. La comunità sunnita appare ora dunque tra due poli, il governo sciita e lo Stato Islamico, nessuno dei quali rappresentativo delle sue prerogative ed esigenze. Spostandoci a nord, la questione curda dimostra doppiamente come un nemico comune non possa avvicinare due cosiddetti avversari: da una parte, seppur anch’essi fermamente schierati nella battaglia contro Da’esh, i curdi non rinunciano certo alle loro prerogative di autogoverno, che rimangono una priorità indiscutibile. Dall’altra, anche tale obiettivo di ‘forza maggiore’ non è però in grado di unificare il fronte curdo iracheno, diviso al suo interno riguardo a modalità e tempistiche di questa sospirata indipendenza.

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Fig. 2 – Humvee in Iraq

3. ASPETTATIVE PER IL FUTURO – Gli iracheni dovrebbero recarsi alle urne nel 2017 per le elezioni provinciali e nel 2018 per quelle parlamentari, che porteranno all’investitura di un nuovo governo. Al-Abadi si ripresenterà, ma dovrà molto probabilmente fare i conti con l’ex premier Nuri al-Maliki, molto vicino alle milizie PMU. Chiunque dovesse risultare vincitore dovrebbe tenere conto che solo un governo rappresentativo e soprattutto rispettoso di tutte le diverse componenti della società irachena potrebbe essere la chiave di volta per riportare la stabilità in Iraq. Secondo al-Abadi e la maggior parte degli analisti, la cacciata di Da‘esh da Mosul è solo questione di tempo. Tuttavia, seppur avente una forte carica simbolica, la ripresa della città dove la stessa nascita del califfato fu proclamata non basterebbe di certo per regolare la situazione in un Paese devastato dalle divisioni interne, dalla guerra e dalle sue conseguenze. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), dal 2014 a oggi il conflitto in Iraq ha prodotto tre milioni di sfollati, di cui 363’000 sono scappati dalla sola Mosul. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) riporta inoltre che circa 1’480’000 persone sono espatriate per tentare di rifugiarsi altrove. Piuttosto che un punto di arrivo, la vittoria su Mosul dovrebbe quindi essere un punto di partenza per costruire un nuovo Iraq fondato sull’integrazione delle sue varie componenti, con un atteggiamento di mediazione e tolleranza verso le richieste curde. Questo potrebbe tuttavia essere molto difficile da porre in atto, poiché la battaglia contro Da’esh ha ulteriormente legittimato i curdi come attore indipendente, capace di difendere i propri territori e di intessere alleanze internazionali indipendentemente da Baghdad. Questa rinnovata autonomia si potrebbe tradurre nel referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno che alcune forze politiche curde vorrebbero indire per settembre 2017, e che vede Baghdad e Ankara fortemente contrarie.

Lorena Stella Martini

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

La coalizione internazionale che combatte lo Stato Islamico in Siria e in Iraq è un’effettiva alleanza dotata di un proprio sito, e composta da 68 tra stati e istituzioni provenienti da ogni area geografica. Indicativa è l’assenza di Russia e Iran, che proseguono indipendentemente la loro battaglia contro Da‘esh. Fondata nel settembre 2014, questa coalizione nasce innanzitutto con il preciso scopo di sconfiggere lo Stato Islamico dal punto di vista territoriale, con alcuni stati, USA in primis, impegnati in una vera e propria offensiva militare in Siria e Iraq, dove Mosul è l’esempio più eclatante. La coalizione si impegna inoltre ad ostacolare la forte carica propagandistica di Da’esh e il conseguente reclutamento di foreign fighters, e la sua penetrazione a livello economico nei territori occupati, nonché lavora alla stabilizzazione delle aree liberate, fornendo ingenti aiuti umanitari. [/box]

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Lorena Stella Martini
Lorena Stella Martini

Nata a Milano nel 1993, scrivo di area MENA per il Caffè Geopolitico dal 2017. Ho conseguito una laurea triennale in Scienze Linguistiche per le relazioni internazionali, specializzandomi in lingua araba, un Master di I livello in Middle Eastern Studies e una laurea magistrale binazionale in Analyse Comparée des Sociétés Mediterranéennes tra l’Italia e il Marocco. Mi interesso in particolar modo di tematiche legate ai diritti umani, alle questioni di genere e ai movimenti sociali nella regione MENA.

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