L’agenda statunitense nel Corno d’Africa gira intorno a tre obiettivi principali: la lotta al terrorismo, l’aiuto umanitario e l’influenza in una delle regioni più strategiche dal punto di vista geopolitico. L’amministrazione Trump sembra però non voler continuare a percorrere la strada dei suoi predecessori.
UN TESORO GEOPOLITICO – Il Corno d’Africa comprende l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia e il Gibuti, stati instabili (o falliti nel caso della Somalia) e soggetti non solo ad attacchi terroristici, ma anche a carestie, siccità, pirateria marittima e crisi di governo. Ciononostante, la regione ha un valore molto importante data la sua posizione geografica: questa si affaccia infatti sul Golfo di Aden, da cui passano la maggior parte delle rotte marittime. Attraverso il Canale di Suez, infatti, l’Europa, il Nord America e il Pacifico sono collegati tra di loro, rendendo il passaggio dei mercantili e delle petroliere più veloce e meno costoso rispetto all’eventualità della circumnavigazione dell’Africa. Il Corno d’Africa è inoltre il centro operativo della lotta al terrorismo di Boko Haram, Al-Shabaab e Al-Qaeda. Infine, la regione è un punto di accesso sia all’Africa Orientale, sia al Medioriente. Avere influenza e truppe nella regione significa quindi controllare un pivot strategico fondamentale sia per la lotta al terrorismo sia per la messa in sicurezza delle rotte marittime. Per questo motivo gli Usa hanno sempre cercato di coltivare relazioni diplomatiche e militari nel Corno d’Africa.
Fig. 1 – Cartina geografica del Corno d’Africa
LA LOTTA AL TERRORISMO – Gli alleati statunitensi nella lotta al terrorismo sono l’Etiopia e il Gibuti. Bush, un anno dopo l’attacco alle torri Gemelle, ha colto l’occasione della “war on terror” per creare la Combined Joint Task Force-Horn of Africa (CJTF-HOA) in Gibuti, giustificandosi dicendo che il terrorismo in quelle zone era una minaccia immediata agli Usa, ai loro alleati e ai loro interessi. Non solo: nel 2006, gli Usa hanno finanziato in Somalia l’Alliances for the Restoration of Peace and Counter-Terrorism (ARPCT) per attaccare gli islamisti, specialmente Al-Shabaab. Il gruppo terroristico somalo non ha avuto vita facile nemmeno durante l’amministrazione Obama, il quale ha fatto in modo che i droni statunitensi raccogliessero intelligence e avessero come target i terroristi. L’obiettivo era quello di evitare che la Somalia diventasse un safe-haven per Al-Qaeda e il terrorismo in generale. L’ex Presidente ha avuto manforte dall’Etiopia, che ha giocato un ruolo fondamentale nella lotta al terrorismo di Obama grazie alla sua partecipazione nella Partnership For Regional East Africa Counterterrorism, creata nel 2009 e finanziata dagli Usa. Con l’amministrazione Trump vediamo sia alcuni elementi di continuità, sia di distacco dalle precedenti strategie. La continuità sta nel voler proseguire la lotta al terrorismo nella zona; il distacco si trova invece nel voler portare avanti un intervento unilaterale. Trump durante i primi giorni della sua amministrazione non ha mai nominato il Gibuti o l’Etiopia come partner nella lotta al terrorismo e il motivo è molto semplice: il Presidente è convinto che la strategia multilaterale delle scorse amministrazioni sia stata fallimentare: “We have been fighting Al-Shabab for a decade, why haven’t we won?” – abbiamo combattuto contro Al-Shabaab per un decennio, perché non abbiamo vinto? Trump è quindi deciso a non abbandonare la regione ai terroristi, ma ad agire da solo, inviando boots on the ground.
Fig.2 – Foto scattata subito dopo un attacco di Al-Shabaab a Mogadiscio, la capitale della Somalia
L’AIUTO UMANITARIO – La regione del Corno d’Africa è una delle più soggette alle carestie e alle siccità, nonché una delle più povere. Per questo motivo gli Usa da anni inviano aiuti umanitari e finanziamenti, sia autonomamente, sia attraverso l’Onu: l’iniziativa dell’US Agency for International Development, in particolare la sezione Food for Peace, ha contribuito agli aiuti della popolazione etiope dopo la siccità di quest’anno con 16 milioni di dollari in beni alimentari. Inoltre, gli Usa sono sempre stati i più grandi contribuenti dei programmi Onu nella regione, e forniscono aiuti umanitari in Africa come in nessun altro continente. Nel 2006 gli States hanno dato più di 2 miliardi di dollari al World Food Programme dell’Onu e dal 2008 l’amministrazione Obama non è stata da meno. Ora con Trump alla Casa Bianca l’eventualità che gli aiuti umanitari si fermino si sta concretizzando. Il Presidente vuole tagliare i fondi diretti all’Onu per l’aiuto umanitario, per due ragioni fondamentali: spingere gli altri stati a contribuire finanziariamente e per paura che la corruzione in Africa non faccia arrivare i soldi a destinazione. L’annuncio di voler tagliare i fondi umanitari arriva purtroppo durante la più grande siccità in 70 anni nel continente africano. Se il Congresso approvasse la decisione di Trump, ci sarebbero nuove ondate di migrazioni e di terrorismo difficili da arginare e gestire.
Fig. 3 – Risorse alimentari inviate dal World Food Programme in Etiopia
IL CAMBIAMENTO CLIMATICO – È ormai noto che Trump ha formalmente annunciato di voler uscire dall’Accordo di Parigi sul clima. Questa decisione avrà degli affetti collaterali specialmente in Africa, le cui condizioni climatiche estreme fanno del continente una regione a rischio carestie e siccità. L’esacerbarsi delle conseguenze del cambiamento climatico senza il contributo degli Usa porterebbe a nuovi conflitti nella regione per il controllo di territorio e di acqua, e a sempre più gravi problemi all’agricoltura africana. Ci sarà un aumento di prezzi del cibo non indifferente, andando ad alimentare tensioni politiche e sociali. Secondo un rapporto commissionato dai Paesi del G7 all’istituto tedesco Adelphi, sono già 79 i conflitti causati dal riscaldamento globale. Questi vengono causati principalmente dalla competizione per l’uso delle risorse idriche e/o dalla mancata integrazione di persone, tribù e gruppi etnici che emigrano da aree vulnerabili per l’innalzamento del mare, disastri ambientali come inondazioni, o terreni troppo aridi da coltivare. Alcuni scienziati dichiarano perfino che il declino della produttività economica indotta dal global warming riduca il potere delle istituzioni governative e renda inefficiente il controllo sociale, favorendo l’insorgenza di conflitti. Considerando che l’Africa si riscalda 1.5 volte più velocemente della media globale, un mancato accordo sul cambiamento climatico danneggerà l’Africa come nessun’altra parte del mondo. L’iter per uscire dall’accordo di Parigi sarà lungo e travagliato, e stati come Somalia ed Etiopia, molto vulnerabili alla scarsità di cibo e di acqua, non possono fare altro che sperare che l’annuncio di Trump non si concretizzi.
Giulia Mizzon
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
La siccità senza precedenti nella regione ha colpito 30 milioni di persone. Solo in Somalia, da gennaio ci sono stati 18 mila casi di colera, malattia tipica della scarsità d’acqua e in Etiopia sono 5,6 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza alimentare. [/box]
Foto di copertina di US Army Africa Licenza: Attribution License