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“Concepita nella libertĂ ”: Lincoln e il discorso di Gettysburg

In 3 sorsi – Nel 1863 il Presidente Lincoln commemora a Gettysburg la più cruenta battaglia della guerra civile, combattuta per salvare l’Unione e abolire la schiavitù. Il significato delle sue parole cambia insieme allo sguardo che l’America rivolge a se stessa

1. “TUTTI GLI UOMINI SONO CREATI UGUALI”

Il 19 novembre 1863, nella cittadina di Gettysburg in Pennsylvania, con voce così mite e stridula da rendere impossibile per buona parte della folla cogliere il suo meditato epitaffio, Abraham Lincoln pronunciò in tre minuti le 272 parole che danno corpo al discorso politico piĂą amato della storia americana. Nella fredda mattina autunnale, sul palco in cima al pendio di Cemetery Ridge, privo della sua celebre tuba cilindrica, il sedicesimo Presidente degli Stati Uniti ricordò i caduti della battaglia decisiva della guerra civile, ivi combattutasi ai primi di luglio. E non volle tanto consacrare il teatro dell’infausta carica sudista contro un massiccio schieramento nordista che l’aveva neutralizzata: quello del Grande Emancipatore fu soprattutto un appello alla nazione intera, che la secessione e il conflitto avevano lacerato e che ora, “sotto la protezione di Dio”, avrebbe dovuto conoscere una “rinascita nella libertà”. L’Address ottenne una rapida diffusione grazie al web network di allora, la stampa. In breve venne impresso nella memoria di ogni soldato federale, che dal Proclama di Emancipazione del gennaio 1863 sapeva a quale causa stava immolando la propria vita: al “principio che tutti gli uomini sono stati creati uguali”, la grande aspirazione dei Padri Fondatori cui le giubbe blu avevano finalmente dato concretezza. Quella american nation aveva avuto i suoi natali nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 – “Or sono sedici lustri e sette anni” – ed era stata “concepita nella libertà”: con un linguaggio al tempo stesso naturalistico e religioso, Lincoln dipingeva gli Stati Uniti come una creatura vivente pensata dal Signore per indicare alla “opinione dell’umanità” la via di un governo finalmente libero. In tal guisa la repubblica americana era andata raffigurandosi all’indomani del Congresso di Vienna del 1815, quando nel Vecchio Mondo la Restaurazione aveva messo a tacere ogni piĂą timido afflato di liberalismo politico: gli Stati Uniti si trovavano così ad essere i soli a poter incarnare quella che nel 1630 il puritano John Winthrop aveva definito la “CittĂ  sulla collina”, faro di libertĂ  per un mondo ancora immerso nelle tenebre del dispotismo. Era questa la quintessenza del loro eccezionalismo.

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Fig. 1 – Lincoln pronuncia il discorso di Gettysburg

2. IL GOVERNO DEL POPOLO

Nondimeno gli odi sezionali, la piaga della schiavitĂą, la secessione degli Stati schiavisti e la guerra fratricida che ne era derivata avevano squarciato la bandiera a stelle e strisce. E dunque le “potenze della Terra” erano rimaste a contemplare il sogno di una grande repubblica democratica infrangersi sugli scogli di quella che Thomas Hobbes amava chiamare la morte dello Stato, la civil war. Per la Francia di Napoleone III e per la Spagna – che covava il malcelato desiderio di riconquistarsi il suo antico impero sulle spoglie della “dottrina Monroe” del 1823 -, quanto avveniva oltre l’Atlantico era la prova dell’intrinseca impossibilitĂ  per uno Stato di prosperare nella stabilitĂ  senza un Governo monarchico. Per il sincero patriottismo di “Abe l’Onesto” conservare intatta l’Unione diveniva allora un solenne giuramento morale, una necessitĂ  che gli si imponeva con la forza dell’imperio temporale della Provvidenza. Quanto era avvenuto a Gettysburg era la dimostrazione che il lucignolo del mondo libero non si era ancora spento. Ai vivi ora il compito di non vanificare il sacrificio dei martiri, di modo che il “Governo del popolo, dal popolo e per il popolo non abbia a perire sulla Terra”: espressione poetica la cui paternitĂ  va attribuita al senatore del New Hampshire Daniel Webster. Il carattere omiletico del discorso ne avrebbe favorito la fama presso un pubblico attraversato da entusiasmi religiosi, frutto dei Grandi Risvegli che caratterizzavano la spiritualitĂ  protestante. Del resto, la “nuova nascita” che richiama il battesimo e il riferimento all’ausilio divino testimoniano un percorso di intima maturazione: esso aveva condotto Lincoln, affascinato in gioventĂą dall’ateismo di Thomas Paine, ad aderire negli anni della guerra ad uno sguardo profondamente pio; sebbene egli – ricorda la moglie Mary Todd – “tecnicamente non fu mai cristiano”. Il suo assassinio, avvenuto dopo soli cinque giorni dalla resa ad Appomattox del generale confederato Robert E. Lee, ha contribuito ad elevare Lincoln all’onore degli altari. In quella che il sociologo Robert Bellah ha definito nel 1967 la “religione civile americana” – sincretistica soluzione di tradizioni puritane, ebraiche e nazionalistiche –, Lincoln ha così assunto, alla destra del Padre della patria George Washington, il ruolo di Cristo: il suo sangue, unito a quello dei martiri unionisti, ha redento la nazione statunitense dal peccato originale della schiavitĂą, che nei decenni prebellici ne aveva appestato le fondamenta ben oltre a settentrione del fiume Potomac. Pur tuttavia, il perdurante razzismo del Nord e il regime di segregazione al Sud hanno finito per disinnescare, negli anni del riformismo e della progressive era, l’empito libertario del messaggio lincolniano. In tal senso, è sufficiente ricordare che il 4 luglio 1913, cinquantenario della battaglia, il Presidente democratico Woodrow Wilson potĂ© presentarsi a Gettysburg per commemorare la ritrovata concordia tra Nord e Sud senza peritarsi di fare la minima menzione del nome di Lincoln.

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Fig. 2 – Lincoln firma il Proclama di Emancipazione col suo gabinetto

3. L’EREDITĂ€ PIĂ™ RECENTE

Negli anni più caldi della Guerra Fredda, la consensus history – corrente storiografica più attenta ad esaltare i valori statunitensi che a soppesare attentamente le fonti – ha mitizzato il passato statunitense, facendone una ininterrotta marcia verso la libertà. In questa prospettiva, la guerra civile aveva traghettato una nazione embrionale verso il progresso industriale del rampante capitalismo di fine Ottocento; così, i suoi quasi settecentomila morti venivano di fatto eclissati e le giubbe grigie finivano per recitare la parte dei recalcitranti difensori di un ordine repressivo, che esattamente come il mondo Oltrecortina si dimostrava impermeabile alle libertà occidentali. In seguito, la storiografia revisionista degli anni Sessanta e Settanta, legata alla temperie culturale della Nuova Sinistra, ha ribaltato questa narrazione ingenua e ottimistica, contribuendo così a rendere più sfumata la valutazione delle ragioni del Sud agrario e degli interessi assai poco altruistici del Nord manifatturiero. Nondimeno, la fama di Lincoln – ancorché depurata dai toni agiografici – si è consolidata. Barack Obama, originario dell’Illinois esattamente come il Presidente “taglialegna”, ne ha ripercorso le orme nel 2009 col suo viaggio in treno da Philadelphia a Washington in compagnia di Joe Biden, e si è altresì prestato nel 2013 alla recita dell’Address nel suo centocinquantenario. E da ultimo Donald Trump, repubblicano al pari di Lincoln, ha definito questi il più grande inquilino della Casa Bianca. Tale ammirazione bipartisan testimonia che, per quanto radicali possano essere le contrapposizioni politiche fra i Dem e il GOP, gli uni e gli altri riconoscono col “Father Abraham” che gli Stati Uniti sono e dovranno rimanere “il Governo del popolo, dal popolo e per il popolo”.

Damiano Mondini

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più 

La letteratura sul tema è naturalmente molto vasta: ci limitiamo a segnalare opere disponibili sul mercato italiano. L’età di Lincoln (1962), a cura di Claudio Gorlier, fornisce un’antologia ragionata relativa al periodo, come pure Gli Stati Uniti nell’età della guerra civile (1978), curato da Raimondo Luraghi, autore della monumentale Storia della guerra civile americana (1966). Più specificamente dedicati al Presidente, la  biografia snella di James M. McPherson, Lincoln. Storia dell’uomo che liberò gli Stati Uniti (2009), e la recente monografia di Tiziano Bonazzi, Abraham Lincoln. Un dramma americano (2016). Ultimo in ordine di pubblicazione, Abraham Lincoln. Le parole, le politiche e l’uso politico (2016), di Marco Sioli, che fornisce anche una panoramica della fortuna della figura dal 1865 ad oggi.

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Damiano Mondini
Damiano Mondini

Classe 1993, nato lo stesso mese dell’Unione Europea, appartengo di diritto al secolo scorso, come si conviene ad uno storico di professione. Laureato in Scienze politiche all’Università degli Studi di Milano, attualmente mi sto specializzando in Scienze storiche. Eclettico per natura, autoironico per temperamento ed erudito per ambizione, coltivo con incostanza una serie caotica di interessi che spaziano dalla filosofia alla teologia, passando per il pensiero politico e la letteratura. Squisitamente moderno e occidentale, ritengo che la Storia inizi nel 1453 e si esaurisca nella Grande Europa, di cui il Nord America è attore fiero e verace: su quest’ultimo e sulla sua storia saranno imperniati i miei contributi al Caffè Geopolitico.

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