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Focus Haiti: come sta il Paese più povero delle Americhe?

In 3 sorsi Oltre ai danni provocati dalla natura, Haiti, il piccolo Paese caraibico, deve scontare la sua storia coloniale, i problemi di corruzione, la carenza di infrastrutture igienico-sanitarie, una stretta dipendenza dall’estero e una cronica situazione di instabilità dovuta all’assenza di governi duraturi 

1. HAITI, UNA REGIONE INSTABILE, UN PAESE POVERO

Gennaio 2010, un terremoto di magnitudo 7.0 provoca solo ad Haiti un numero di vittime stimate tra 222mila e 316mila; ottobre 2016, un uragano di categoria 5, chiamato Matthew, provoca 603 vittime delle quali 546 ad Haiti; settembre 2017, un uragano di categoria 5 con venti fino a 295 km/h, chiamato Irma, provoca effetti devastanti sull’intera area caraibica. Così, a Port-au-Prince, la capitale di Haiti, come anche nelle aree più interne, i quasi undici milioni di haitiani vivono una perenne crisi umanitaria che rende il piccolo paese il più povero delle Americhe.

Più della metà della popolazione vive con meno 2,4 dollari al giorno e un altro 25% vive addirittura sotto la soglia di povertà estrema con 1,2 dollari al giorno, per un totale complessivo di circa 8 milioni di poveri. I ripetuti disastri ambientali hanno messo in ginocchio il fragile sistema agricolo nazionale; risulta difficile trovare il cibo per l’alimentazione di base e metà della popolazione non ha accesso all’acqua potabile. In queste condizioni, tra emergenza abitativa, malnutrizione e carenza di pratiche igieniche, un bambino su dieci non arriva a compiere 5 anni.

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Fig. 1 – La maggior parte delle abitazioni nelle periferie e nelle zone interne sono baracche costruite con materiale di recupero

2. UNO STORICO PROBLEMA DI CONFINI

Il confine tra due Paesi in via di sviluppo, non maturi, tende solitamente ad essere una zona di instabilità politica e di sovrapposizione culturale, dove l’identità dei popoli spesso si confonde. È quello che è succede sull’isola di Hispaniola, dove Haiti divide lo spazio con la Repubblica Dominicana: una convivenza che non è mai stata digerita. I contrasti risalgono al XVII secolo, durante il periodo coloniale, quando Francia e Spagna si spartirono i territori dell’isola. Differenze geografiche, culturali, religiose, demografiche, linguistiche ed economiche hanno reso l’area di confine molto labile, spingendo gli haitiani oltre il confine, sul territorio dominicano. Tra il 1930 e il 1960, Rafael Trujillo, dittatore della Repubblica Dominicana, per limitare tale sconfinamento, iniziò una politica nazionalista di “dominicanizzazione” delle terre di frontiera.

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Fig. 2 – La frontiera tra Haiti e la Repubblica Dominicana presso Malpasse

Molte energie furono investite per sviluppare una pacchetto di azioni incisive: la rieducazione religiosa attraverso la cristianizzazione della popolazione di frontiera per combattere la religione Voodoo haitiana di origine africana, gli imponenti investimenti sull’educazione scolastica attraverso la costruzione di scuole, il reclutamento degli insegnanti migliori, il sovvenzionamento di spese di vitto, alloggio e testi scolastici, l’insegnamento della lingua spagnola, il miglioramento della rete stradale, gli investimenti in agricoltura per rendere praticabile e redditizia la coltivazione sui terreni di frontiera. La politica di Trujillo funzionò e la frontiera venne nazionalizzata. Con la morte del dittatore, invece, la nuova amministrazione del paese cambiò rotta, abbandonando l’interesse per l’area di confine che tornò ad essere porosa. Dopotutto, sull’isola di Hispaniola come altrove, quando le condizioni di vita tra paesi limitrofi sono profondamente diverse, risulta difficile impedire l’emigrazione.

3. L’EREDITA’ COLONIALE ED IL COLERA

Con la fondazione di Port Royal, nell’attuale Nuova Scozia, inizia nel 1605 l’esperienza coloniale della Francia. Saint-Domingue, oggi Haiti, conquistata dai francesi nel 1664, diventò nel Settecento la più ricca colonia dei Caraibi, grazie alla produzione di zucchero. A distanza di oltre 250 anni da allora, Haiti continua a combattere con la sua storia, vittima di elite di potere che hanno sempre approfittato della sua povertà per trarre profitto. Sull’onda della Rivoluzione in Francia, nel 1804, Haiti è il secondo paese americano – dopo gli Stati Uniti – a dichiarare la propria indipendenza. Alcuni storici parlano di Haiti come di un paese condannato fin da allora, perché la nascita della prima repubblica “nera” non era un bell’esempio in un’epoca ancora fortemente caratterizzata dal potere degli imperi coloniali.

Oggi il Paese rimane ancora sotto il controllo della Francia, ma soprattutto degli USA e delle organizzazioni internazionali. Proprio gli USA, dopo il disastroso terremoto del 2010, sulla base del piano denominato TPS (Temporary Protected Status, creato nel 1990) stanno fornendo ospitalità straordinaria ai rifugiati ambientali fuggiti da Haiti. Pochi giorni fa, l’amministrazione di Donald Trump ha annunciato la fine del piano di protezione e, entro il 22 luglio 2019, il rimpatrio di quasi 60.000 haitiani attualmente residenti negli USA, adducendo che ad Haiti non esistono più le gravi e straordinarie condizioni venutesi a creare con il terremoto.

L’attuale Presidente Jovenel Moise, il 18 novembre scorso, anniversario della battaglia di Vertières la quale assicurò l’indipendenza di Haiti dalla Francia, ha reintrodotto l’esercito haitiano. Quest’ultimo fu smantellato nel 1995 dall’allora Presidente Jean-Bertrand Arisitide, il cui governo fu precedentemente rovesciato proprio dai suoi militari. Oggi il nuovo esercito conta solo 150 reclute, ma è prevista una forza dai 3 ai 5.000 uomini per i quali il governo spenderà 8,5 milioni di dollari nel 2018. Più che una manovra di politica di difesa dello Stato, sembra essere un serbatoio di occupazione pilotata, in un paese con un alto tasso di disoccupazione. Il Presidente Moise, eletto lo scorso febbraio sulla base di una scarsa partecipazione al voto (solo il 20% degli aventi diritto), deve già difendersi dalle accuse di corruzione. La nascita del nuovo esercito nazionale e soprattutto le spese previste, sono state accompagnate da numerose proteste che cavalcano le indagini relative a presunti furti di fondi internazionali arrivati ad Haiti dopo il terremoto del 2010. Altre indagini, invece, sembrerebbero rivelare come politici haitiani siano coinvolti in affari miliardari con Petrocaribe, l’alleanza tra il Venezuela e altri paesi caraibici per la compravendita di greggio a condizioni di pagamento preferenziali. Al contrario, durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre a New York, è lo stesso Presidente Moise a dichiarare che “la corruzione in tutte le sue forme atrofizza l’economia, minaccia profondamente le istituzioni politiche e destabilizza il tessuto sociale: la corruzione è un crimine contro lo sviluppo”.

Era il dicembre del 2016 quando, in chiusura del suo mandato, Ban Ki-moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite, dichiara pubblicamente di non aver fatto abbastanza riguardo il contenimento della diffusione del colera ad Haiti. Si tratta di una triste vicenda che risale all’intervento dell’ONU dopo il terremoto del 2010: un’epidemia di colera ebbe origine sulle colline centrali del paese e si diffuse rapidamente; in pochi anni la malattia portò alla morte ufficiale di quasi 10.000 haitiani (molti di più secondo le stime ufficiose). Il tutto cominciò nei pressi di Mirebalais, dove un accampamento ospitava 454 caschi blu arrivati dal Nepal. Le acque di scarico dei rifiuti di origine umana dell’accampamento defluivano direttamente nel fiume Meille e molto probabilmente contagiarono i residenti della borgata a valle che usavano l’acqua del fiume per lavarsi e per le pratiche domestiche. Proprio in Nepal, nello stesso periodo, era in corso un epidemia di colera. Dopo molte pressioni legali (giuridicamente inutili, in quanto l’ONU gode di immunità legale) e internazionali, l’ONU ha dichiarato un possibile “coinvolgimento” e ha ufficializzato le sue scuse per bocca del Segretario, il quale ha anche annunciato un futuro pacchetto da 400 milioni di dollari per affrontare il problema.

Dario Urselli

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Il Voodoo è una pratica religiosa molto diffusa in Benin, paese africano dal quale partirono come schiavi i primi uomini, poi diventati haitiani. I sacerdoti di questa religione sembrerebbero essere colpevoli di “zombificazione”, così alcuni senatori haitiani si sono recentemente recati oltre Atlantico per studiare come riformare il codice penale, relativamente ai crimini legati a pratiche di stregoneria Voodoo. [/box]

Foto di copertina di hoyasmeg Licenza: Attribution License

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Dario Urselli
Dario Ursellihttps://ilcaffegeopolitico.net/

Nato in Liguria nel 1974, papà di Viola e di Leonardo, laureato in Scienze Politiche. Troppo curioso per rimanere sempre fermo, sostiene gli esami all’Università di Genova e alla Oxford Brookes University durante il Programma Erasmus; la tesi in Geografia Politica ed Economica (“Turismo: passaporto per lo sviluppo?”) ha visto la luce alla University of Edinburgh; a Nizza studia la lingua francese. In attesa di trovare ispirazione nel mondo del lavoro, frequenta un Corso di Perfezionamento in Cooperazione Economica, Politica e Sociale allo Sviluppo e successivamente il Corso EuroMediterraneo di Giornalismo Ambientale “Laura Conti”. Una piccola cooperativa di servizi turistici lo ospita per dieci anni di lavoro, mentre attualmente gestisce con la famiglia un’impresa agrituristica nell’entroterra ligure. Nei tranquilli mesi invernali studia Fotografia – una passione di gioventù – e frequenta il corso di Laurea Magistrale in Geografia e Processi Territoriali all’Università di Bologna. Senza pregiudizi e preconcetti cerca di capire le trame che muovono gli eventi globali e descrive le situazioni umane, sperando di suscitare un sussulto nel lettore. Scrive per Il Caffè Geopolitico dal gennaio del 2017.

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