Analisi – Sono passati cinque mesi dal colpo di Stato in Myanmar e in questo arco di tempo il Giappone non ha mai preso una posizione chiara contro la giunta militare. Il timore è quello di turbare i delicati equilibri geopolitici nell’area, spingendo così l’ex-Birmania sotto l’influenza cinese.
IL MYANMAR SOTTO I FERRI DELL’ESERCITO
Il 1° febbraio 2021 l’equilibrio politico e istituzionale del Myanmar è stato sconvolto da un colpo di Stato a opera di alti generali e funzionari del Tatmadaw, l’esercito nazionale.
Il golpe ha condotto all’arresto e all’incarcerazione del Presidente eletto, Win Myint, e della consigliera di Stato Aung San Suu Kyi. Lo stesso giorno il vicepresidente Myint Swe ha dichiarato lo stato di emergenza per il Paese. L’indomani, 2 febbraio, i poteri dello Stato sono stati trasferiti al comandante in capo del Tatmadaw, generale Min Aung Hlaing, e al neoistituito Consiglio per l’Amministrazione Statale, che ha sostituito il Parlamento nella gestione e nel Governo del Paese.
I militari contestavano, già da diverse settimane, i risultati delle elezioni parlamentari tenute l’8 novembre 2020. In quell’occasione la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) guidata dall’influente politica, già premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, ha conquistato la maggioranza assoluta in Parlamento con percentuali vicine al 60% delle preferenze. Il partito controllato dall’esercito, invece, ha raccolto solamente una decina di seggi: da qui, l’accusa di brogli elettorali da parte dei militari.
Contro le azioni dell’esercito birmano si sono sollevate numerose critiche all’interno della comunità internazionale: molti organismi di stampa hanno parlato apertamente di “usurpazione illegittima” del potere e di “violazioni gravi e palesi dei diritti umani”. I cittadini birmani hanno dato inizio a una serie di violente proteste contro il Tatmadaw, sedate, fino ad ora, in un bagno di sangue con oltre 880 vittime fra la popolazione civile (al 28 giugno). Rispetto a questi avvenimenti il Giappone ha mantenuto un atteggiamento passivo; l’inerzia dimostrata ha attirato sul Paese del Sol Levante numerose critiche da parte dei propri alleati storici.
Fig. 1 – Il generale Min Aung Hlaing, capo di Stato in pectore del Myanmar dal 2 febbraio
LA TIMIDA REAZIONE DEL GIAPPONE
Durante i mesi di febbraio e marzo il Giappone è rimasto pressoché immobile dinnanzi agli avvenimenti, specialmente se comparato a quanto messo in atto da molte altre nazioni.
Già nei giorni successivi al colpo di Stato, infatti, molti Paesi occidentali come Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Nuova Zelanda avevano condannato con veemenza le azioni del Tatmadaw, interrompendo i rapporti diplomatici con il Myanmar e infliggendo sanzioni a danno di singoli generali o imprese che collaborano con l’esercito birmano. Il Giappone, invece, alla data del 15 marzo non si era spinto oltre le dichiarazioni formali e le esortazioni di “facciata” del Ministro degli Esteri, Toshimitsu Motegi, che auspicavano un ritorno alla normalità .
Alla fine di marzo il Giappone ha annunciato di aver interrotto i negoziati per nuovi aiuti allo sviluppo (ODA, Overseas Development Aid) in Myanmar, mantenendo però operativi quelli già stipulati prima del golpe.
Passi piĂą concreti e decisi contro la giunta militare sono arrivati solamente nelle ultime settimane.
Il 21 maggio, infatti, il Ministro degli Esteri Motegi ha avvertito che “pur non avendone il desiderio, il Giappone non potrĂ far altro che riconsiderare la sua politica di ODA verso il Myanmar se la situazione politica non dovesse migliorare“, minacciando quindi un’interruzione degli ODA correnti e non solamente dei futuri: una misura, questa, sicuramente piĂą impattante della precedente. Nella stessa conferenza Motegi ha anche paventato un blocco anche agli ingenti investimenti privati giapponesi nel Paese.
L’8 giugno, quindi, è stato il turno del Parlamento nipponico, che ha “condannato senza appello” il colpo di Stato, atto che “calpesta tutti gli sforzi di democratizzazione compiuti nel Paese da dieci anni”. La risoluzione adottata dalle Camere esorta il Governo a utilizzare tutti gli strumenti diplomatici, anche afflittivi, per garantire la restaurazione della democrazia in Myanmar.
Il Giappone sembra così imboccare, anche se con prudenza e quasi riluttanza (viste le parole di Motegi), la strada delle sanzioni internazionali contro il Myanmar, in tal modo allineandosi ai Paesi alleati e prendendo una posizione netta contro il regime militare al potere.
Ma quali sono i motivi per cui la risposta giapponese si è fatta attendere fino a questo punto?
Fig. 2 – Conferenza stampa del Ministro degli Esteri giapponese Toshimitsu Motegi, 4 giugno 2021
GIAPPONE, MYANMAR, CINA: UN GIOCO DI ALLEANZE E UN EQUILIBRIO REGIONALE INSTABILE
La posizione del Giappone rispetto al Myanmar non è di facile soluzione: i due Paesi sono legati fra loro da un’amicizia piĂą che decennale, ma considerato il precario equilibrio geopolitico nella regione, Tokyo teme di perdere influenza sull’ex-Birmania in favore della Cina se dovesse esercitare eccessiva ingerenza negli affari interni dell’alleato. Proprio in questo senso vanno lette le parole del Ministro della Difesa giapponese, Yasuhide Nakayama, il quale all’indomani del golpe affermava: “Se (l’affare Myanmar) non verrĂ maneggiato con cura, il Paese potrĂ deviare ben lontano dalla comunitĂ delle nazioni democratiche politicamente libere, e a unirsi alla lega cinese“.
Ogni mossa, quindi, deve essere cautamente soppesata per evitare brusche frizioni fra i due Paesi. Secondo Simon Tay, Presidente del Singapore Institute for International Affairs, “visto quanto il Giappone ha investito nel Myanmar, e il fatto che si senta in competizione geo-economica con la Cina per il controllo dell’area, [Tokyo] sta esitando a procedere“.
Proprio per non turbare l’equilibrio geopolitico nell’area, il Giappone fu fra i pochissimi Paesi a sostenere il Tatmadaw anche durante la violenta repressione della minoranza Rohingya nel 2017, nella regione del Rakhine nel Nord del Paese. I due Paesi mantennero programmi di cooperazione militare e il Giappone si astenne dalle risoluzioni ONU che condannavano le azioni del Governo birmano. Anche nel 2018 Kentaro Sonoura, portavoce del Ministro della Difesa giapponese, affermava: “Il Giappone confida nel Tatmadaw visto l’importante ruolo svolto dall’esercito per il mantenimento della democrazia in Myanmar“.
Nel 2020 la crisi dei Rohingya venne risolta grazie al rilevante contributo di un inviato speciale del Governo giapponese, Yohei Sasakawa, confermando i profondi legami che uniscono i due Paesi, ma le misure adottate furono criticate, e ancora oggi il Giappone persiste nel non riconoscere i crimini commessi dal Tatmadaw in occasione del conflitto.
Il Myanmar è fortemente legato al Giappone sul lato economico: secondo i dati del 2019, gli ODA erogati da Tokyo ammontano a quasi 2 miliardi di dollari all’anno, rendendo il Giappone il quarto donatore al mondo e il primo in Asia per il Myanmar. Sull’onda di questi finanziamenti moltissime aziende giapponesi hanno stabilito le loro sedi di produzione nell’ex-Birmania: il Paese è quindi diventato un importante mercato, sia manifatturiero che di esportazione, per il Giappone. La necessità di salvaguardare quanto investito è un altro motivo per cui il Governo di Tokyo non prende una posizione eccessivamente ostile verso la giunta militare.
Ragioni economiche ed equilibri geopolitici potrebbero essere le giustificazioni di uno stallo così evidente da parte del Governo giapponese. Quali che ne siano le ragioni, rimane il fatto che il Giappone, potenzialmente centrale nella mediazione per la pace in Myanmar visto il grande legame fra i due Paesi, si è invece dimostrato un grande assente negli ultimi mesi.
Matteo Graziani
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