La Catalogna è chiamata tra pochi giorni alle urne, in un contesto magmatico, in cui si affrontano principi fondamentali costituzionalmente garantiti e difesa dell’ordine costituito, mentre l’economia di una regione fin ora ricca e prospera arranca. Ma come si è arrivati a questo punto? Cerchiamo di dare ai nostri lettori qualche traccia
«VOLEU QUE CATALUNYA SIGUI UN ESTAT INDEPENDENT EN FORMA DE REPÚBLICA?»
In un clima profondamente scosso dall’attentato terroristico del 17 agosto a Barcellona, il Presidente della Generalitat, Carles Puigdemont aveva indetto un referendum, fuori da ogni previsione costituzionale, che metteva in discussione, in poche parole , l’unità dello stato spagnolo e la monarchia. Il rocambolesco succedersi degli eventi è culminato, prima, nella decisione dei Mossos de Escuadra, la polizia catalana, di non rispondere agli ordini di Madrid, vigilando sui seggi e scontrandosi con la Guardia Civil (diciamo che c’è stato qualche tafferuglio tra Mossos e Guardia Civil, ma nulla di diffuso), inviata ad impedire l’espressione del voto il 1° ottobre 2017. L’esito referendario, nonostante le forti intimidazioni, ha avuto come conseguenza la dichiarazione di indipendenza del 27 ottobre, in aperta sfida al governo centrale e in profondo contrasto con quanto previsto dall’art. 2 della Costituzione spagnola , che proclama l’indissolubile unità della nazione. L’intervento del sovrano non è riuscito, come prevede la Costituzione, ad arbitrare e moderare il funzionamento regolare delle istituzioni (art. 56 Cost..), come fece invece suo padre Juan Carlos, reagendo ad un tentativo di colpo di Stato (il golpe Tejero del 1981) con autorevolezza e determinazione, per la difesa dell’ordinamento democratico.
NUOVE ELEZIONI
La proclamazione dell’indipendenza della Catalogna, con un iter estraneo alla procedura costituzionale, ha comportato l’arresto, con l’accusa di sedizione e ribellione, del vicepresidente della Generalitat catalana, di parte dell’esecutivo, mentre il presidente Carles Puigdemont fuggiva in Belgio. Il governo centrale ha sciolto il Parlamento catalano, convocando le elezioni per il prossimo 21 dicembre. Questa procedura, prevista dall’art.155 della Costituzione, costituisce uno strumento legislativo asimmetrico, ma comunque temporaneo. Le ansie separatiste catalane, affrontate per anni con diverse modalità, sono sfociate in una situazione che il governo di Madrid non ha saputo né prevenire né gestire, dimostrando un’intrinseca debolezza e una sostanziale incapacità di utilizzo degli strumenti giuridici fruibili per una risoluzione pacifica della controversia istituzionale. D’altro canto anche il governo catalano ha operato scelte a dir poco dissennate, che potrebbero preludere ad una vera e propria rivolta violenta, più volte invocata.
TRACCE DI SOVRANITA’
Le origini di questi eventi risalgono a molti secoli fa. Nel XII secolo si trovano riferimenti alla nazionalità dei Cathalani, parte dell’unione dinastica che diede vita al regno di Spagna. Successivamente le istituzioni catalane (Generalitat de Catalunya) furono protagoniste di tensioni e conflitti che determinarono la conquista di consistenti spazi di autonomia, fino alla fondazione della Repubblica catalana (1641-1652). Correva l’anno 1714, quando la Catalogna, in esito alla guerra di successione spagnola, perse ogni forma di indipendenza: ogni anno quindi, l’11 settembre, in ricordo di quell’evento, si celebra la Diada de Catalunya, la “festa nazionale” che ricorda la chiusura delle Generalitat, sede del Governo, e delle Cortes Catalanes (sede del Parlamento), e l’adozione obbligatoria della lingua castigliana. E’ questa la data, tradotta in minuti (17’14’), utilizzata dalla tifoseria della squadra del Barcellona per avviare i cori indipendentisti durante le partite di calcio, in particolare quelle contro il Real Madrid. Nel corso del ‘900 i catalani hanno goduto di una brevissima indipendenza durante la II Repubblica (1931-1939), travolta dalla guerra civile che insanguinò la Spagna dal 1936 al 1939 fino all’instaurazione del regime di Franco. Dopo la morte nel 1975 del Caudillo che aveva soffocato ogni velleità autonomistica, la struttura statuale spagnola si andò saldamente ancorando a uno stato di diritto democratico e sociale, con un assetto in cui trovavano ampie garanzie le comunità storicamente autonome: la Catalogna, la Galizia, l’Andalusia e il Paese Basco.
COMPROMESSI ISTITUZIONALI
La Costituzione, approvata nel 1978, rifletteva un peculiare processo, durante il quale si sarebbe generata una forma di regionalismo a doppio binario, qualora le singole province, oltre le comunità storiche, avessero deliberato di associarsi come comunità autonome. La centralità delle Cortes veniva temperata dalle competenze normative proprie del governo, dal ruolo forte degli enti territoriali autonomi e dalle facoltà di intervento repressivo del Tribunale Costituzionale, che svolge un ruolo di indubbia rilevanza e non è indipendente dal potere politico. Il processo autonomistico, istituzionalizzato con l’approvazione dell’art.2 della Costituzione, fu il frutto di un compromesso tra le diverse tendenze (dall’UCD di Suarez al PSOE) che, nel corso degli anni ‘80, non si rivelarono ostili alle rivendicazioni delle nazionalità storiche, rimanendo sempre attente a tutelare l’unità della Spagna. La politica delle autonomie rimase però uno dei passaggi più delicati della vita delle istituzioni spagnole.
UNA STAGIONE DI RIFORME
Nel 1998, con la Dichiarazione di Barcellona, le nazionalità riproposero formalmente il riconoscimento della sovranità, mentre si riacutizzava lo scontro centro-periferia cui il governo Zapatero, sostenitore di una Spagna plurale, cercò di ovviare riavviando il processo di riforma degli statuti delle comunità autonome, sospeso negli anni precedenti. Il nuovo Statuto catalano venne approvato il 18 giugno 2006 con referendum regionale, ma i popolari di Rajoy si opposero fermamente alla sua adozione. L’art.1 del Titolo I prevedeva che la Catalogna, in qualità di nazione, esercitasse il suo autogoverno sulla Comunità Autonoma, in accordo con la Costituzione e lo Statuto stesso, quale norma fondamentale. Il Senato non accolse la proposta originaria del Parlamento catalano, che definiva la Spagna uno stato plurinazionale, ma consentì, nel testo varato, importanti spazi di autonomia, l’obbligatorietà della lingua catalana nelle scuole e una più ampia gestione delle risorse economiche e finanziarie.
CONCERTAZIONE E SOLIDARIETA’
In un primo tempo, in effetti, il progetto catalano si era ben differenziato (soprattutto da quello basco, insanguinato dall’ETA) per la concertazione che lo aveva caratterizzato e per il rispetto della solidarietà interterritoriale. Inoltre, la possibilità concessa dallo Statuto di firmare trattati internazionali, subordinata all’autorizzazione dello Stato centrale, confermava il pieno rispetto dell’unità nazionale, in un equilibrio che molti definirono virtuoso, teso ad un rafforzamento delle sedi di raccordo intergovernativo. Il Partido Popular considerava però le previsioni statutarie catalane fonte di disgregazione, di instabilità sociale e foriere di uno sgretolamento dell’unità nazionale. Pertanto iniziò una forte contrapposizione tra il governo centrale e le periferie che portò a impugnare il procedimento utilizzato per l’approvazione della legge di riforma dello statuto catalano, perché si ravvisava in esso non una modifica statutaria ma una vera e propria riforma costituzionale.
BATTAGLIE LEGALI
Il Tribunal Constitucional, in un primo tempo, aveva rigettato la questione, ma poi la riprese e, con la famosa sentenza n.31 del 28 giugno 2010, abrogò la parte dello Statuto che riguardava gli obiettivi autonomistici ed eliminò il riferimento al termine “nazione” (catalana) dal Preambolo, spiegando che per nazione si deve intendere solo la Spagna, come regno cui inerisce l’esercizio della sovranità. La Catalogna rimase soggetto di diritto, ma non destinataria di poteri sovrani. In questa ottica non si prevede alcun potere di indire consultazioni referendarie in quanto tale materia è riservata alla competenza statale. Poco dopo, nel 2013, il governo Rajoy, dopo il fallimento dei negoziati sul Pacto Fiscal, impugnò una nuova risoluzione del parlamento catalano (la n. 5/X), con la quale veniva approvato il diritto di autodeterminazione, secondo il principio di legittimità democratica, partecipazione e legalità in senso addirittura europeista.
BATTAGLIE PROCEDURALI
Il Tribunale Costituzionale dichiarò l’incostituzionalità della previsione normativa, interpretando il derecho a decidir, nel senso dell’impossibilità di convocare un referendum sull’indipendenza della Catalogna. In effetti, anche in base al diritto internazionale, il principio di autodeterminazione è percorribile solo qualora un popolo sia privato della propria indipendenza, come accadde durante il dominio coloniale, o qualora un territorio sia stato occupato da un Paese straniero, oppure qualora un popolo, configurandosi come gruppo minoritario, sia privato dell’accesso al potere di governo e alle forme della rappresentanza politica. Diversamente non si configura alcun diritto di rompere l’unità dello Stato, se non nel caso in cui sia espressamente riconosciuto dallo Stato stesso, come, ad esempio, è previsto nell’ordinamento giuridico della Gran Bretagna. In conclusione, la Catalogna non avrebbe dovuto prevedere consultazioni referendarie, ma avrebbe potuto presentare una proposta di riforma costituzionale, che le Cortes sarebbero state obbligate a prendere in esame. In questo progetto sarebbe stato possibile inserire una nuova norma costituzionale che prevedesse la possibilità per le autonomie di indire referendum con oggetto un quesito sull’indipendenza. Il tribunale Costituzionale spagnolo aveva in qualche modo indicato una procedura percorribile per un eventuale processo di autodeterminazione.
BATTAGLIE REFERENDARIE
Il Parlamento catalano, fermo nella sua determinazione, ha approvato nel 2014 una nuova legge, la n.10, che prevedeva il referendum consultivo e che ha dato luogo, come escamotage, a seguito di una nuova pronuncia del Tribunale costituzionale, a una semplice e non vincolante votazione spontanea, tenutasi il 9 novembre 2014, il cui esito, favorevole all’indipendenza, ha dato sostegno alle successive rivendicazioni. Approvata la Declaración de ruptura del 9-N, dichiarata incostituzionale, il governo catalano ha creato la Commissione di studio del processo costituente e poi ha indetto un altro referendum sull’indipendenza, nonostante le reiterate dichiarazioni di incostituzionalità del giudice delle leggi. Altre due norme sono state poi approvate per disciplinare lo svolgimento delle consultazioni, la transitorietà giuridica e la fondazione della Repubblica. L’epilogo di questo braccio di ferro è stata la dichiarazione unilaterale di indipendenza della Catalogna.
LABIRINTI E FILI DI ARIANNA
Tutte le contraddizioni della giovane democrazia spagnola, che Brenan definì come un labirinto, sembrano convogliate oggi in Catalogna. Le domande che ci poniamo sono tante ma, fra tutte, la più inquietante riguarda l’Europa. Sicuramente l’UE non ha alcun ruolo istituzionale in questa faccenda, che riguarda il diritto costituzionale e la geopolitica di una regione ricca e trainante per l’economia come quella catalana. Molti però si chiedono se, a fronte di una situazione così grave che si sta innescando all’interno di quelle frontiere che avrebbero dovuto abbracciare gli Stati Uniti d’Europa, lo spirito dei padri fondatori possa risvegliare il popolo europeo affinché abbandoni formalismi di bilanci e di monete, per quanto importanti, e ritorni a disegnare (attraverso proposte federali, per esempio) nuove immagini di un mondo fatto di dialogo, reciproca comprensione e certezza dei diritti dell’uomo e del cittadino. Nel frattempo molti, troppi stanno a osservare , da piazza Maidan al Kosovo, fino ad Hong Kong, per esempio, dove altre forme di indipendenza sono state chieste.
Elisabetta Esposito Martino
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Gerald Brenan, nel suo testo The Spanish Labyrinth: An Account of the Social and Political Background of the Spanish Civil War, racconta del suo viaggio nella Spagna del 1919, tra le tensioni sociali e politiche che precedettero la guerra civile. L’uscita dal labirinto diviene così metafora di un intero Paese e della natura umana. [/box]