Il Procuratore della Corte penale internazionale ha richiesto, lo scorso novembre, l’autorizzazione ad aprire un’indagine sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dal 2003. Ci si interroga intanto sulle priorità e aspettative della giustizia internazionale e della politica interna del Paese. Dopo le esitazioni dello scorso anno, il Governo di Kabul sarà adesso disponibile a collaborare con i giudici de L’Aia?
IL PERCORSO EVOLUTIVO DELLA GIUSTIZIA PENALE INTERNAZIONALE
Una pace durevole si fonda sull’affermazione della verità: vale a dire sull’analisi dei fatti, sull’attribuzione delle responsabilità e sulla punizione dei colpevoli. La citazione è tratta da un discorso pronunciato nel 2000 dal magistrato svizzero Carla Del Ponte, Procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) dal 1999 al 2007. La fine degli anni Novanta ha marcato una piena evoluzione della giustizia penale internazionale: il diritto dei vincitori di giudicare i vinti era un’idea oramai anacronistica, così come retrograda appariva anche la creazione di nuovi tribunali ad hoc, espressione di una giustizia ex post facto in evidente contrasto con il principio di irretroattività della legge penale.
Permaneva però l’esigenza di istituire un organismo in grado di fornire idonee garanzie di indipendenza e imparzialità. Una doppia elica destinata ad identificare il DNA del primo tribunale penale permanente: la Corte penale internazionale (ICC) de L’Aia, sbocciato dallo Statuto di Roma del 1998 per superare le critiche incontrate dagli organismi precedenti e competente in relazione a crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimine di genocidio e, ancora, di aggressione. L’atto istitutivo della Corte – pienamente operativa dal 2003 – entrava in vigore il 1° luglio 2002, al raggiungimento della sessantesima ratifica.
Nel corso di quasi vent’anni, 123 Paesi hanno acquisito lo status di Stati Parte della Corte, 11 inchieste sono state aperte e 8 situazioni sono oggetto di esame preliminare da parte dell’Ufficio del Procuratore (OTP). Nell’elenco alfabetico delle Preliminary Examinations, il primo posto è occupato dall’Afghanistan.
Tra i plenipotenziari partecipanti alla Conferenza Diplomatica di Roma, nel luglio 1998, era presente anche il futuro Ministro degli Esteri afghano Abdullah Abdullah, membro della Northern Alliance (in prima linea contro il regime talebano) e attuale Chief Executive della Repubblica Islamica. Cinque anni più tardi, il Governo di Kabul procedeva al deposito dello strumento di ratifica, impegnandosi così a riconoscere la giurisdizione della Corte de L’Aia rispetto a crimini eventualmente perpetrati da cittadini afghani o comunque commessi in territorio afghano, a partire dal 1° maggio 2003.
Ebbene, lo scorso novembre, il Procuratore capo dell’ICC Fatou Bensouda ha manifestato l’intenzione di procedere ai sensi dell’Art. 15 dello Statuto di Roma. Ha rivolto una formale richiesta di autorizzazione alla Camera Preliminare per l’apertura di un’indagine nella Repubblica Islamica dell’Afghanistan ed ha contestualmente esortato le vittime a condividere le proprie storie ed inviare le proprie testimonianze alla Corte entro il 31 gennaio 2018. Il 5 dicembre, la Pretrial Chamber ha invitato il Prosecutor Bensouda a fornire informazioni aggiuntive e ulteriori chiarificazioni, così da poter valutare l’opportunità di autorizzare le indagini.
Fig. 1 – La sede della Corte penale internazionale all’Aia
GIUSTIZIA E VERITÀ NEL COMPLESSO TEATRO AFGHANO
Diversamente dai due tribunali istituiti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, la Corte permanente de L’Aia è un organo di giurisdizione complementare rispetto agli omologhi statali, potendo esercitare le proprie competenze per i crimini previsti dallo Statuto solo qualora lo Stato che abbia giurisdizione sul caso riveli carenza di volontà o incapacità di perseguire i soggetti penalmente responsabili mediante i propri tribunali interni.
In via generale, il deferimento di tali situazioni alla Corte può essere operato dal medesimo Stato Parte competente a perseguire i suddetti crimini (come per la Repubblica Centrafricana e la Repubblica Democratica del Congo), oppure mediante rinvio del Consiglio di sicurezza dell’ONU rispetto a fattispecie criminose poste in essere sul territorio di uno Stato non Parte (cfr. Libia, Sudan e Darfur) o, ancora, sulla base di segnalazioni trasmesse da organizzazioni non governative ed altri fonti extra-governative operanti sul territorio.
Nel caso specifico dell’Afghanistan, l’esame preliminare del Procuratore capo della Corte e propedeutico all’apertura delle indagini è cominciato esattamente nel 2006. Alla luce degli elementi di prova raccolti e delle analisi effettuate entro un arco di tempo decennale, il 14 novembre 2016 l’OTP pubblicava una Relazione Annuale, nella quale si dichiarava la sussistenza di elementi tali da giustificare l’inizio delle indagini relativamente a diverse fattispecie criminose ricadenti nella giurisdizione della Corte. Più specificamente, gli elementi di supporto richiamavano la commissione di presunti crimini contro l’umanità e crimini di guerra perpetrati dalle forze talebane e dai militanti islamisti della Rete Haqqani, vicina al movimento talebano; crimini di guerra di tortura e maltrattamento compiuti dalle forze governative afghane (in particolare l’agenzia di intelligence e la polizia nazionale); ulteriori episodi di tortura e abusi posti in essere dalle forze militari statunitensi in Afghanistan e in altri centri di detenzione segreta della CIA, a partire dal biennio 2003-4 fino al 2014.
Considerando che il deferimento alla Corte è riconducibile all’esercizio del potere di iniziativa del Prosecutor, si può comprendere come l’azione dell’ICC non sia automatica, ma debba necessariamente essere preceduta e supportata dall’autorizzazione della Pre -Trial Chamber, che si pronuncerà entro due o tre mesi.
http://gty.im/148763242
Fig. 2 – Secondo i dati forniti dal Dipartimento di Stato americano, il 2015 ha registrato in Afghanistan il più alto numero di vittime civili per atti di terrorismo interno
QUALI OPPORTUNITÀ E QUALI SFIDE PER LA CORTE DELL’AIA?
Qualora la Pre-Trial Chamber autorizzasse la richiesta formulata dal Prosecutor Bensouda conformemente all’Art. 15 dello Statuto, il pronunciamento del collegio finirebbe con il risvegliare usuali interrogativi e ulteriori riflessioni.
Anzitutto, sarebbe opportuno domandarsi se i giudici dell’Aia possano effettivamente esercitare le proprie funzioni ed i propri poteri previsti dallo Statuto, alla luce della delicata postura internazionale assunta dagli Stati Uniti d’America, che – non avendo mai ratificato l’atto istitutivo – non rientrano nel novero dei Paesi Parte. Ad ogni buon conto, il solo fatto che i presunti crimini in questione siano stati perpetrati in territorio afghano implica, di per sé, il riconoscimento della competenza dell’ICC per gli eventi successivi al 1° maggio 2003, come anche l’esercizio della giurisdizione in relazione ai supposti abusi consumatisi nei black sites della CIA tra Polonia, Lituania e Romania. Oltretutto, non si trascuri la possibilità legale di emettere un mandato d’arresto nei confronti di cittadini americani e di renderlo esecutivo all’estero, qualora questi esercitino il diritto di circolazione in Paesi membri della Corte de L’Aia.
Su un piano assai diverso trova collocazione un’altra problematica, e cioè l’esigenza di aumentare la consapevolezza del popolo afghano e, più specificamente, delle vittime circa il ruolo di una giurisdizione internazionale permanente e l’estrema gravità dei reati che rientrano nella cognizione della Corte.
A tale proposito, vale bene richiamare le condizioni di scurezza estremamente precarie in cui il Paese versa ancora oggi, che hanno imposto severe limitazioni alle visite del personale della Procura ed hanno ostacolato la cooperazione con le organizzazioni locali incaricate della divulgazione della missione e dei principi ispiratori della Corte.
Infine, altre considerazioni attengono al fragile equilibrio tra giustizia e politica e principalmente al timore che una giustizia sovranazionale tendente ai canoni di indipendenza e imparzialità possa oscurare, se non addirittura annientare, le aspirazioni di pace e stabilità dell’Afghanistan.
Fig. 3 – Le statistiche condotte dal U.S. Institute of Peace evidenziano come il popolo afghano ritenga il clima di instabilità e assenza di sicurezza la causa principale dell’immobilismo del Paese
UNA PACE DI CRISTALLO, INTRAPPOLATA TRA DEBOLEZZA E SCETTICISMO
Secondo l’opinione espressa dai vertici di Kabul dopo la pubblicazione del Report annuale del 2016, l’imminente instaurazione di un procedimento innanzi ai giudici dell’Aia avrebbe compromesso gravemente gli sforzi che avevano finalmente portato al tavolo negoziale una delegazione del Governo centrale e diversi esponenti del gruppo fondamentalista Hezb-i-Islami (HIA). Per agevolare la conclusione delle trattative di pace, il Prosecutor Bensouda aveva dunque acconsentito a sospendere per un anno la richiesta per il deferimento del caso alla Corte.
Tuttavia, il processo di implementazione dell’accordo intervenuto tra l’amministrazione del Presidente Ghani e i militanti di HIA si è notevolmente discostato dalle aspettative iniziali ed esponenti di HIA hanno accusato il governo di soccombere alle pressioni della comunità internazionale.
Ad ogni modo, esperti di geopolitica locale esortano a non sottovalutare la popolarità di cui gode Hezb-i-Islami in vaste aree del Paese, come anche a riflettere sul potenziale delle frange più democratiche del partito e sull’influenza che queste potrebbero forse esercitare su alcuni leader talebani.
Ma anche qualora i talebani accettassero di partecipare ai colloqui di pace con il Governo afghano, quali ripercussioni politiche discenderebbero dal loro perseguimento da parte dell’ICC in qualità di responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità?
A voler esaminare le perplessità che hanno animato i palazzi del potere di Kabul, può risultare interessante una breve richiamo al rapporto intercorrente tra i concetti di pace e di giustizia e sulla differenza, recentemente riproposta da un analista afghano, tra un’idea di pace negativa (quale interruzione della violenza) e una di pace positiva (intesa come stato di non violenza e giustizia).
Si comprende pertanto come l’essenza della battaglia giuridica non si identifichi semplicemente con la mera sospensione di inutili violenze, ma con il perseguimento di una pace più duratura.
Condizione non del tutto impossibile, a patto di voler scommettere sulla capacità della giustizia internazionale di minare alla radice la diffusa cultura di impunità e di contribuire – per richiamare le parole del Procuratore Carla Del Ponte – al ristabilimento e mantenimento della pace internazionale.
http://gty.im/154960766
Fig. 4 – Il sistema giudiziario afghano, già distrutto da 30 anni di guerra civile, soffre ancora di numerose difficoltà strutturali, incapacità e corruzione che giustificano il frequente ricorso dei cittadini a meccanismi di giustizia informale
Luttine Ilenia Buioni
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Il 27 ottobre è divenuto operativo il ritiro del Burundi dagli Stati aderenti allo Statuto di Roma. La stessa intenzione di lasciare la Corte, vagamente minacciata dal Kenya e dall’Uganda, è stata espressamente manifestata anche dal Gambia e dal Sudafrica. Se anche il Sudafrica abbandonasse realmente la Corte, quest’ultima subirebbe un durissimo colpo da parte di Pretoria, considerata fino a pochi anni fa la più convinta e attiva sostenitrice dell’ICC nel continente africano.[/box]
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