In 3 sorsi — L’elezione dell’ultra conservatore Ebrahim Raisi — eletto con la più bassa affluenza alle urne di tutta la storia della Repubblica Iraniana — rende palesi i cambiamenti di equilibrio interni al regime iraniano, e la disillusione di una parte della società civile.
1. COSA SIGNIFICA QUESTA VITTORIA?
Il risultato delle ultime elezioni iraniane, che ha portato alla vittoria del candidato ultra conservatore Ebrahim Raisi, può essere considerato una sintesi della storia del Paese degli ultimi 6 anni, a partire cioè dal 2015, anno della firma del JCPOA. La scarsa affluenza alle urne, la più bassa in tutta la storia della Repubblica Iraniana (circa il 48,8%), palesa la disillusione e la stanchezza della società nei confronti di un regime che impedisce a molti candidati non allineati di presentarsi alle elezioni e più in generale verso una classe politica incapace di rispondere adeguatamente al perdurare delle sanzioni americane, al crollo del reddito pro capite — che in dieci anni è sceso del 30%, — al crollo del prezzo del petrolio e alla quarta ondata di Covid-19. Oggi la vittoria di Raisi, accusato di essere uno dei tanti responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani nel Paese — come l’uccisione di molti giovani attivisti del Movimento Verde — penetra una società già prostrata dagli innumerevoli precedenti regimi di controllo e di repressione delle libertà fondamentali.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Ebrahim Raisi, nuovo Presidente dell’Iran
2. IL REGIME DI RAISI E LE SUE ISTANZE
L’elezione di Ebrahim Raisi è una vittoria per tutta l’ala ultra conservatrice iraniana e rispecchia l’uomo che serviva al regime in questo momento. Dopo l’uscita degli USA dal JCPOA, infatti, Teheran intende elaborare contro l’Occidente una politica a zero compromessi. L’arrivo di Raisi, ponendo uno stop al dualismo tra moderati e conservatori che negli ultimi otto anni ha caratterizzato il panorama politico iraniano, consegna il Paese nelle mani dei conservatori. Raisi era l’uomo perfetto quindi, un uomo che grazie a una lunga carriera in ambito giudiziario, che lo ha visto protagonista come magistrato nell’epurazione di detenuti politici, ha saputo costruito intorno a sé negli anni rispetto e sostegno, sia da parte del regime che da parte dei poteri forti.
L’elezione — o meglio la nomina — di Raisi sembra quindi rispondere a due necessità fondamentali: da un lato quella di garantire all’ala conservatrice una figura solida e sicura e dall’altro di rappresentare la scelta più ideale per un’eventuale successione ad Ali Khamenei, facilitando di molto il processo di selezione dell’Assemblea degli Esperti. La Repubblica Islamica quindi ora sembra parlare con una voce sola, in cui le due ali dello Stato iraniano si ricompattano e in cui a prendere il comando è il conservatorismo tradizionalista.
Fig. 2 – Il Grand Hotel di Vienna, sede degli incontri diplomatici per rilanciare il JCPOA
3. RAISI TRA JCPOA ED ‘ECONOMIA DI RESISTENZA’
Raisi entrerà in carica il 3 agosto 2021 con l’obiettivo primario di far ripartire il tavolo delle negoziazioni sul JCPOA e di giungere finalmente a un accordo con gli USA. Se per il mondo economico iraniano esso significherebbe – con l’abolizione delle sanzioni – la ripresa di molti scambi economici dall’esterno, per il regime costituirebbe il successo della resistenza alla potenza USA. L’accordo non è scontato e il regime – in caso di fallimento – continua nell’intento di mantenere una strategia di “economia di resistenza”, ovvero quel processo di indigenizzazione dei processi produttivi e di strutturazione di un’economia sempre più resiliente e forte agli shock esterni. Tuttavia i molti dubbi circa l’affidabilità statunitense (vista l’uscita degli USA dal JCPOA nel 2018) ha portato anche la leadership iraniana a non considerare più l’accordo un trampolino di lancio verso un dialogo più ampio con l’Occidente, ma soltanto come uno strumento strategico che apporta vantaggi economici al Paese. Si allontana quindi da una prospettiva che considerava l’Occidente un partner affidabile e si avvia, di nuovo, verso quel quadro — prefiguratosi già 40 anni fa durante il conflitto con l’Iraq — in cui il rapporto con l’Occidente risulta principalmente strutturale a evitare un ulteriore isolamento internazionale
Desiree Di Marco
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