Al momento solo pochi Paesi hanno ottenuto l’esenzione rispetto ai dazi imposti da Trump sull’importazione di acciaio e alluminio. Che ne sarà del prezioso rapporto tra Washington e Tokyo se l’attuale amministrazione americana continuerà sulla strada del protezionismo?
IL RITORNO DELL’INCUBO PROTEZIONISMO
Molti temevano che l’elezione di Trump avrebbe comportato una reviviscenza della retorica nazionalista nei rapporti commerciali con il resto del mondo, ma solo dopo le recenti decisioni del Presidente americano la minaccia di una guerra commerciale globale è diventata più concreta. Nei primi giorni di marzo Trump ha infatti annunciato l’introduzione di dazi doganali sull’acciaio e sull’alluminio, rispettivamente del 25% e del 10%. Se l’intento primario è chiaramente quello di tutelare l’industria e i posti di lavoro sul territorio americano nonché colpire la Cina riducendo così lo squilibrio della bilancia commerciale, questa misura rischia di produrre effetti collaterali molto seri e dall’esito imprevedibile. Primo fra tutti, quello di inasprire i rapporti con Paesi amici come il Giappone e l’Unione Europa, oltre che causare una reazione a catena di contromisure. Se in un primo momento gli unici Paesi esclusi dall’applicazione dei dazi erano Canada e Messico (con i quali è in corso la rinegoziazione del NAFTA), è stato da poco scongiurato il pericolo che l’UE fosse inclusa nel provvedimento; del resto Bruxelles era pronta a rispondere per le rime, con un corposo elenco di prodotti Made in USA che sarebbero stati colpiti da un aumento delle tariffe all’ingresso del mercato unico. Chiaramente anche il Giappone ha adottato la stessa linea di difesa, senza tuttavia calcare la mano sulle possibili ritorsioni: il risultato tuttavia è che al momento non sembra sia prevista un’eccezione per le esportazioni giapponesi. Le notizie più recenti non fanno che peggiorare la situazione: dopo aver dichiarato che il deficit commerciale nei confronti della Cina deve essere tagliato al più presto di almeno 100 miliardi di dollari, Trump ha anche stilato una lista di circa 1300 beni d’importazione su cui imporre tariffe pari ad almeno 60 miliardi di dollari (oltre ad alcune restrizioni sugli investimenti negli Stati Uniti). Il tempismo non è certamente casuale: il deficit commerciale americano verso il resto del mondo non è mai stato così consistente dal 2008, anno in cui ci fu il fallimento di Lehman Brothers. Proprio mentre l’economia globale sembra registrare segnali concreti di ripresa generale dopo la crisi, il fragile do ut des tra le due maggiori economie mondiali (gli USA comprano le merci dalla Cina e questa finanzia il debito pubblico americano) viene messo in pericolo. La tensione nel mondo della finanza è palpabile: tra il 23 e il 25 marzo le principali borse asiatiche hanno perso terreno e anche in Europa il segno dominante è stato quello negativo. Lo yen si è dimostrato ancora una volta un bene rifugio, tant’è che si è apprezzato rispetto al dollaro sfavorendo ulteriormente le esportazioni e provocando un crollo della borsa di Tokyo pari al -4,8%.
Fig. 1 – Un investitore a Shanghai monitora l’andamento dei titoli in borsa dopo un inizio sofferto delle contrattazioni per la paura di una guerra commerciale globale, 23 marzo 2018
UN’ECO DI TEMPI LONTANI
Molti analisti rivedono nel contesto annuale le stesse dinamiche verificatesi negli anni ‘80 tra Giappone e Stati Uniti. In quella fase l’industria giapponese (in particolare, come tutti ben ricordano, quella dell’elettronica e automobilistica) era in piena espansione e ciò provocò un braccio di ferro tra Tokyo e Washington che, in quell’occasione proprio come ora, fece la voce grossa. Con l’intento di non minare la strategica alleanza politico-militare, il Giappone acconsentì ad una “restrizione volontaria” delle esportazioni di auto per dare modo alla controparte americana di riadattare il proprio piano produttivo e strategico; nei fatti è ben noto che nel concreto si trattò semplicemente di spostare più a sud gli impianti industriali. La tattica di Washington di “fare la voce grossa” ebbe buon esito anche con gli alleati europei: l’amministrazione Reagan indusse anche Germania, Francia e Gran Bretagna ad apprezzare le loro valute nei confronti del dollaro, troppo forte in quel periodo e troppo limitante per i prodotti americani, divenuti troppo costosi all’estero. La sostanziale differenza tra il Giappone di allora e la Cina di adesso è che la Cina è tutt’altro che un alleato: è un rivale sia da un punto di vista economico che sotto il profilo politico e militare. Certamente la Cina ha beneficiato molto dall’ingresso delle proprie merci sul suolo americano, ma è altamente improbabile che Pechino si possa piegare facilmente alle pretese di Trump. Inoltre, l’introduzione delle tariffe avrebbe un impatto negativo sui consumatori americani ed è per questo motivo che l’amministrazione Trump sta ricevendo non poche pressioni dal mondo del business a stelle e strisce.
Fig. 2 – Diplomazia parallela? L’ex presidente statunitense Barack Obama con il Premier giapponese Shinzo Abe durante la sua recente visita a Tokyo, 25 marzo 2018
LE PRIORITÀ DI ABE
Nonostante questo clima diffuso di timori ed incertezze, è improbabile che i dazi imposti da Trump possano danneggiare seriamente i rapporti tra Giappone e USA: è infatti ancora troppo nitida nella mente l’immagine di Shinzo Abe e Donald Trump che indossano quei cappellini candidi con la scritta “per un’alleanza ancora più forte”. Più concretamente, Abe ora non può permettersi di fare a meno di questo punto fermo essenzialmente per due motivi. Il primo è che la tensione nella regione dovuta alle “stravaganze” di Kim Jong-un e all’assertività di Pechino nelle sue rivendicazioni territoriali è tutt’altro che diminuita. Il secondo è che tutte le energie di Abe e del suo partito sono convogliate verso la tanto agognata riforma della Costituzione per modificare lo status delle Forze di Autodifesa. Al momento Abe sta perdendo consenso a causa dello scandalo della scuola Moritomo Gakuen (già nota per le sue simpatie nazionaliste), alla quale sono stati ceduti territori di proprietà dello Stato a prezzi stracciati; la stessa moglie di Abe è coinvolta in prima persona. Il sogno di Abe sarebbe quello di indire un referendum costituzionale già durante quest’anno, ma oltre a mancare un accordo in seno al Partito Liberal Democratico (LDP) sul testo dell’emendamento, manca un generale clima di sostegno della maggioranza della popolazione a una riforma di portata storica. In questo senso Abe sta lavorando molto anche sul versante dell’opinione pubblica, puntando il dito contro l’articolo 4 della legge sulle trasmissioni televisive che impone l’imparzialità per i media (una normativa di questo genere era già stata abrogata negli Stati Uniti, suscitando non poche polemiche). In questo contesto è probabile che, di fronte ad un ipotetico aumento dei dazi sulle merci giapponesi, Abe alzi la voce in difesa del libero mercato e dei lavoratori nipponici, senza tuttavia mettere a repentaglio un asset così vitale. Anche la recente visita in Giappone dell’ex Presidente Obama sembra voler rappresentare una rassicurazione in questo senso: in un’intervista ha infatti dichiarato che per un Presidente la cosa migliore è circondarsi di persone che non dicono soltanto “sì”, ma che esprimono la propria sincera opinione nell’interesse del proprio popolo. A buon intenditore poche parole.
Mara Cavalleri
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
In un’intervista radiofonica del 1986, Ronald Reagan disse che innalzare barriere doganali è come prendersi a torte in faccia: uno inizia, l’altro contraccambia e il risultato è letteralmente un pasticcio per tutti. L’aspetto ironico è che per minacciare le sanzioni contro la Cina, Trump ha fatto ricorso ad “un’arma” creata proprio da Reagan, ovvero la Sezione 301 del Trade Act del 1974, che permette al Presidente di imporre tariffe in modo unilaterale. [/box]
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