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Biden: i due fronti della global tax, tra politica estera e interna

In 3 sorsiI ministri dell’Economia delle Potenze del G20 raggiungono l’intesa sulla riforma del fisco globale che prevede l’introduzione di una Global Tax con aliquota al 15% sui profitti delle grandi imprese e tassazione delle multinazionali più grandi e redditizie nel Paese dove realizzano le loro vendite.

1. L’ITER NEGOZIALE E LA COSTRUZIONE DEL CONSENSO

Difficilmente nella storia della diplomazia economica si è raggiunto un accordo così ambizioso di riforma del fisco globale. L’eccezionalitĂ  non risiede soltanto nel largo consenso riscosso dalla nuova misura di contrasto al fenomeno di dumping fiscale (ovvero la concorrenza fra Stati nell’abbassare le imposte per attrarre investimenti dall’estero), ma anche nella volontĂ  di intervenire su di una materia storicamente afferente alle competenze sovrane di ogni Stato. La costruzione di una così larga maggioranza ha seguito un iter negoziale fitto, avviato ad aprile da una proposta di Biden inviata a 140 paesi. Da qui è stata la volta del G7 in Cornovaglia e dell’accordo del 1° luglio, che ha visto partecipi i 139 paesi membri dell’Inclusive Framework OCSE. Proprio in questa sede si è progettata l’impalcatura a “doppio pilastro” del progetto di riforma: il primo inerente alla redistribuzione di una parte di profitti in eccedenza realizzati da multinazionali con un fatturato globale superiore ai 20 miliardi di dollari negli Stati in cui queste aziende operano senza una sede, il secondo relativo all’aliquota minima mondiale del 15% sui redditi delle multinazionali. Ed è su questo schema che a Venezia, il 9 e 10 luglio, hanno infine trovato l’intesa i ministri delle Finanze dei Paesi del G20. Mettere insieme gli Stati che rappresentano il 90% del PIL globale – includendo quindi anche Cina e India – è sicuramente un successo politico, il cui merito va riconosciuto all’Amministrazione americana e alle capacitĂ  diplomatiche del Segretario del Tesoro Janet Yellen. Un meccanismo di concessioni in cui determinante è stata anche la disponibilitĂ  statunitense a tassare le proprie multinazionali. Da qui discendono pertanto le pressioni di Washington verso i Paesi UE rivolte a scongiurare l’introduzione di digital tax a copertura, in parte, dei piani di ripresa post pandemia. Da questo punto di vista ulteriori complicazioni per l’Unione Europea sono offerte da Irlanda, Ungheria ed Estonia, tre dei nove Paesi che hanno rifiutato l’accordo OCSE. Su questi aspetti Bruxelles dovrĂ  trovare una quadra che vada bene sia a livello europeo sia a livello internazionale e molto dipenderĂ  dai prossimi meeting.

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Fig. 1 – Il Segretario al Tesoro Janet Yellen al G20 Finance Ministers di Venezia

2. L’ARMONIZZAZIONE DEI SISTEMI FISCALI

Altro nodo cruciale per la buona riuscita della riforma è la definizione di una base imponibile comune, la cui determinazione richiede la risoluzione di questioni di carattere tecnico: dalla valutazione del reddito tassabile, alle regole sulle ripartizioni dei costi. Regole, queste, che sono intrinsecamente connesse alla storia politica ed economica di ciascun Paese. Questo il tema che su tutti dovrà essere affrontato nei futuri tavoli tecnici: definire una base omogenea significa infatti impedire clausole antielusive del sistema. Si tratta pertanto di un percorso ancora da completare, la cui difficoltà risiede anche nella scelta di uno strumento che sia idoneo a vincolare gli Stati al rispetto degli standard. Come noto il ricorso ai trattati multilaterali vincolanti non ha riscosso un gran successo negli anni recenti (si pensi ai trattati sui cambiamenti climatici). Occorre individuare quindi un meccanismo in cui gli attori del sistema siano invogliati ad adottare su base spontanea regole sostanziali uniformi. In questo senso l’annuncio statunitense di introdurre, in via unilaterale, la tassazione sui redditi globali delle multinazionali è da intendersi come il segnale dell’adesione a un rinnovato multilateraliteralismo, definibile come un “multilateralismo della responsabilità”, in cui la spontanea assunzione di impegni da parte del singolo Stato, in quanto replicabile da un altro Stato, è capace di dare attuazione a una sistema consolidato.

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Fig. 2 – Le potenze del G7 avevano trovato un primo accordo al Finance Ministers Meeting di Londra

3. L’ESAME IN CONGRESSO

Ora un’altra importante battaglia per Janet Yellen dovrĂ  disputarsi entro le mura domestiche. DovrĂ  superare le opposizioni dei repubblicani e del business, i quali sostengono che l’agenda di riforma fiscale del Presidente costerĂ  posti di lavoro e rallenterĂ  la crescita economica. La soluzione a questa impasse potrebbe essere l’inserimento della global tax all’interno dell’American Families Plan e il ricorso alla piĂą snella procedura della “reconciliation”, che permette di bypassare i voti dei repubblicani al Senato tramite la sola approvazione della maggioranza semplice. In ogni caso, anche se dovesse passare in Senato, i democratici alla Camera hanno una maggioranza ristretta anche alla Camera e questo potrebbe essere un problema da non sottovalutare. Ulteriori frizioni potrebbero provenire anche da quegli stati USA che hanno regimi fiscali di favore, come il Nevada, il Wyoming e il South Dakota, nonchĂ© dal Delaware – stato di cui il Presidente Biden è stato Senatore. In questi termini, l’obiettivo di piena operativitĂ  della riforma a livello globale entro il 2023 diviene piĂą complesso, ma il dialogo internazionale fin qui instaurato segna sicuramente una discontinuitĂ  rispetto al passato.

Lorenzo De Poli

Photo by 12138562 is licensed under CC BY-NC-SA

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Perchè è importante

  • L’accordo raggiunto al G-20 di Venezia sull’introduzione di una tassa globale e la redistribuzione dei profitti delle multinazionali rappresenta una vittoria per Biden e il suo progetto di riforma del fisco.
  • Ulteriore elemento determinate per il successo della riforma sarĂ  l’armonizzazione dei sistemi di calcolo della base imponibile su cui applicare la Global Tax.
  • Il Segretario del Tesoro Yellen dovrĂ  ora convincere il Congresso sui meriti di quella che è stata definita una intesa storica.

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Lorenzo De Poli
Lorenzo De Poli

Praticante avvocato del foro di Roma. Dopo la maturitĂ  classica presso la Scuola Navale Militare “F. Morosini” di Venezia, consegue la laurea in Giurisprudenza presso la LUISS Guido Carli di Roma, optando per un major in diritto amministrativo e discutendo una tesi in diritto urbanistico. Ha frequentato il Master in Studi Diplomatici della SIOI. Oltre al diritto, coltiva da sempre la passione per l’archeologia e la storia dell’arte.

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