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Bonsignore: il ruolo odierno dell’industria della difesa

Miscela strategica – Nella seconda parte della nostra intervista trattiamo con Ezio Bonsignore altri due argomenti delicati, e probabilmente meno conosciuti dei precedenti: l’industria della difesa e i nuovi concetti operativi. Ecco come

 

 

(II. Segue. Rileggi qui la prima parte)

 

 

Parliamo dell’importanza del comparto industriale della difesa per un Paese. La globalizzazione ha creato una forte interdipendenza internazionale tra le industrie (della difesa ma non solo), anche fra Paesi politicamente contrapposti, con pochissime eccezioni. E’ ancora strategicamente importante poter “fare da sé”? In che misura?

 

In linea di principio, mantenere almeno un certo nucleo di capacità industriali (sviluppo e produzione) autonome costituisce senza dubbio un elemento importantissimo, direi anzi essenziale, nelle politiche di difesa complessive di un Paese, per evidenti motivi di indipendenza strategica. A questo vanno poi aggiunte le non certo trascurabili ricadute sul piano dell’occupazione, con la creazione e il sostegno di posti di lavoro ad altissimo livello tecnologico, e su quello della bilancia dei pagamenti, con almeno una frazione degli investimenti per l’acquisto di sistemi d’arma che rimane a beneficio delle industrie nazionali anziché essere dirottata all’estero.

Se l’industria nazionale è in grado di produrre i sistemi d’arma richiesti, capaci di prestazioni ottimali e ad un prezzo competitivo, tutto fila via liscio. All’opposto, se l’industria nazionale proprio non esiste o ha capacità limitatissime, occorrerà comprare dall’estero, accettando il salasso economico e la dipendenza strategico/operativa che ne derivano (e che, sarà bene precisarlo, continuano ben oltre il semplice acquisto iniziale). Ma nelle situazioni intermedie, forse la decisione più difficile che i responsabili degli approvvigionamenti militari di un Paese possano trovarsi a dover prendere è quella della scelta tra un sistema d’arma di produzione nazionale, che però ha un costo elevato e offre prestazioni non del tutto soddisfacenti, e un sistema estero che costa magari qualcosa di meno e rappresenta il meglio della sua categoria. Insomma, Ariete o Leopard 2? La scelta non è affatto semplice, e non si può in alcun modo concludere che certe decisioni “autarchiche” siano sempre e comunque dovute alle pressioni degli interessi industriali, a scapito dell’efficienza delle FFAA (Forze Armate).

Sono stati studiati parecchi sistemi diversi, per cercare di venire a capo di questi problemi o quanto meno “addolcirne” i termini. Uno dei sistemi più sfruttati è la costruzione su licenza, che però ha delle contro-indicazioni di non poco conto.  Come prima cosa, i sistemi prodotti su licenza hanno  un costo  necessariamente ben superiore all’ acquisto diretto. Inoltre, il programma richiede la costosa creazione di adeguate capacità industriali (o l’espansione di capacità già esistenti), che rischiano di trovarsi poi di colpo senza lavoro e inutilizzate dopo la consegna dell’ultimo esemplare . Questo è ad esempio il caso della FACO di Cameri per il programma F-35. La costruzione su licenza è quindi davvero interessante solo quando comporta un importante trasferimento di tecnologie, e/o quando si hanno ragionevoli aspettative di poter utilizzare l’impianto industriale anche dopo la fine del programma. Altrimenti, è forse meglio acquistare direttamente, e puntare piuttosto su compensazioni industriali, dirette o indirette, sino a coprire il 100% del valore dell’acquisto.

I Paesi europei hanno come noto puntato molto sui programmi in cooperazione, gli esempi più significativi in merito sono il Tornado e l’Eurofighter. Anche qui, vi sono luci e ombre. Da un lato, questi programmi hanno permesso e permettono lo sviluppo e produzione di sistemi d’arma avanzatissimi, che nessun Paese europeo potrebbe altrimenti permettersi su base puramente nazionale. Inoltre, il carico di lavoro è ripartito con estrema precisione in base ai rispettivi contributi nazionali ai costi (così che tutto ciò che un Paese spende, sino all’ultimo centesimo, rientra a favore delle sue industrie), e tutti i Paesi hanno accesso completo a tutte le tecnologie, sviluppate nel corso del programma comune. Ma dall’altro lato, e proprio in conseguenza dei punti positivi di cui sopra, i grandi programmi multinazionali hanno una struttura organizzativa e industriale eccezionalmente  complessa e farraginosa,  con continui ritardi, ripensamenti e difficoltà decisionali, e costi complessivi molto elevati – anche se, beninteso, ciascun Paese spende sempre molto di meno rispetto a quanto costerebbe un ipotetico programma nazionale.

Per certi versi, la soluzione ideale (per chi se la può permettere) è quella seguita da Cina e India, che non a caso sono in rapidissima ascesa come Grandi Potenze del XXI secolo. Si perseguono cioè in parallelo sia programmi di acquisto dall’estero (quasi sempre mediante costruzione su licenza), e sia programmi di sviluppo nazionale. Questi ultimi sono però sottoposti al vaglio critico delle FFAA, e le autorità politiche si guardano bene dall’ imporre l’adozione di un certo sistema, solo perché è “autarchico”: se il carro armato, l’aereo o il missile “fatti in casa” funzionano a dovere, si passa alla produzione in serie e all’introduzione in servizio,  altrimenti si buttano tra i rottami e si passa ad altro. Il programma è quanto meno servito ad imparare qualcosa, e la prossima volta si farà meglio. Naturalmente, i costi complessivi di questo atteggiamento non sono trascurabili.

Personalmente, sono un convinto sostenitore della necessitĂ  (e anzi della convenienza a lungo termine) di mirare a conservare l’indipendenza strategica nel settore delle industrie della difesa, dovunque e comunque questo sia possibile – idealmente a livello nazionale, altrimenti in cooperazione europea. Questo, anche se una politica del genere comporta costi superiori, e forse – ma da decidere con attenzione, caso per caso – anche se comporta il dover accettare sistemi d’arma che non rappresentano il “top” assoluto delle tecnologie esistenti.

 

 

Vista “networkcentrica” del campo di battaglia

Difesa anti-missile, cyber warfare, sea basing, network centric warfare, per fare alcuni “nomi”. Questi concetti operativi, in parte correlati tra loro, sono la “moda del tempo” oppure una vera rivoluzione del campo di battaglia contemporaneo?

 

Uno dei tanti luoghi comuni sul mondo della difesa descrive i militari come ottusi, testardi, retrogradi e ostili alle novitĂ . Questo è purtroppo vero in non pochi casi. Ma allo stesso tempo,  la guerra – che si tratti di combatterla o piuttosto di evitarla – è forse il settore di attivitĂ  umana caratterizzato dalla piĂą intensa, tenace e continua ricerca di nuovi mezzi e nuove dottrine d’impiego. Questo è facilmente comprensibile data l’importanza della posta in gioco, e del resto i risultati dell’idea o/e dell’arma giusta al momento giusto possono essere straordinari: basti pensare alla campagna di Francia nel maggio 1940.

D’altro canto, è innegabile che proprio questo perpetuo inseguimento del miraggio dell’“arma segreta” risolutrice rischia spesso di scadere nella moda, nella psicosi del giocattolo nuovo che bisogna assolutamente avere, nell’accettazione acritica di idee formulate da altri per un contesto strategico e operativo ben diverso, nell’imitazione in stile pappagallo. Un esempio contemporaneo è la vera e propria mania dello “stealth”.

Non abbiamo purtroppo lo spazio per analizzare a dovere le varie tecnologie e principi operativi citati. Posso comunque senz’altro dire che sono idee di per sé abbastanza sensate, che si tratti della volontà di uscire dalla situazione di stallo strategico creata dal deterrente nucleare reciproco (difesa anti-missile), della percezione di un possibile conflitto futuro senza perdite umane e senza danni materiali (cyber warfare), oppure della necessità di definire una soluzione alternativa alla rete di basi sparse in tutto il mondo, rete che sta diventando insostenibile sul piano finanziario e politico (sea basing), o ancora del tentativo di sfruttare al massimo le possibilità offerte dall’elettronica digitale per la raccolta, elaborazione, distribuzione e presentazione di dati tattici (network-centric warfare).

E’ però legittimo avanzare dubbi a due livelli. Il primo livello riguarda la convenienza stessa degli obiettivi che ci si prefigge. Ad esempio: sarebbe davvero saggio e strategicamente conveniente, abbandonare il principio del deterrente reciproco? Quali potrebbero essere le contromisure, messe in atto da chi vede la credibilità del proprio deterrente minacciato dall’introduzione di sistemi ABM? Siamo davvero sicuri che la situazione finale – sistemi ABM da un lato, contromisure dall’altra – sia preferibile a quella iniziale? O ancora: l’idea che si possa attaccare un Paese e metterlo in ginocchio senza uccidere i suoi soldati e senza distruggere le sue infrastrutture, semplicemente mediante forme di guerra cibernetica, è per certi aspetti affascinante. Ma chi ne trarrebbe i maggiori benefici? Non certo l’Occidente, che vedrebbe di fatto annullata tutta la sua costosissima superiorità in armamenti convenzionali. Insomma, Stuxnet ha funzionato a nostro vantaggio, ma lo stesso giochetto potrebbe esserci rivoltato contro ad opera di Paesi od organizzazioni che non sarebbero mai in grado di crearci alcun problema sul piano strettamente militare.

Il secondo livello riguarda invece i dubbi circa le reali probabilità/possibilità che certi concetti rivoluzionari funzionino davvero  come previsto. Negli stessi Stati Uniti, il dibattito sul network-centric warfare è tuttora molto intenso, coinvolgendo anche i massimi livelli delle forze armate. Può darsi che si tratti dell’ennesimo caso di generali dalle sinapsi calcificate che si oppongono alle novità per principio (“Gli aerei sono dei giocattoli interessanti, ma non hanno alcuna utilità militare” – Maresciallo Foch, 1914; “L’importanza della mitragliatrice è stata enormemente esagerata. Due per battaglione sono più che sufficienti” – Gen. Sir Douglas Haig, 1915); ma può anche darsi che si tratti invece di buonsenso operativo di fronte a chimere ipertecnologiche.

 

(II. Continua. Leggi qui la prima partee la terza parte)

 

Marco Giulio Barone

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Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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