Analisi – L’Australia registra il numero più alto di contagi in un solo giorno dall’inizio della pandemia, mentre la quota di popolazione interamente vaccinata langue ancora al 30% e le proteste anti-lockdown iniziano a far breccia nella popolazione. Le divisioni politiche si fanno sempre più forti tra il Governo federale e le Autorità statali.
AUMENTANO I CASI… E LE PROTESTE
Forti tensioni nello scorso fine settimana (21-22 agosto) in Australia, dove alcune migliaia di persone hanno sfidato le restrizioni per scendere in piazza nelle principali città. Violenti scontri tra oltre 4mila manifestanti e la polizia si sono registrati in particolare a Melbourne, con più di duecento arresti e ben sei agenti che sono dovuti ricorrere a cure mediche. Scene simili si sono viste a Sydney, dove 47 persone sono state arrestate. Proteste in tono minore si sono verificate anche a Brisbane e al confine tra lo Stato del Queensland e il New South Wales. La movimentazione è scattata poche ore dopo l’annuncio di un’ennesima estensione del lockdown in entrambi gli Stati del New South Wales e del Victoria. Livelli di tensione senza precedenti negli ultimi 20 anni in Australia, dove l’opinione pubblica non è certamente abituata a scene di guerriglia urbana. Ieri il Paese ha registrato il più alto numero di casi in un solo giorno dall’inizio della pandemia, oltre milla. La situazione è particolarmente critica nei quartieri a sud-ovest di Sydney, capitale del Nuovo Galles del Sud (NSW), dove alcuni ospedali hanno sospeso le normali attività per far fronte unicamente all’emergenza Covid.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Una donna arrestata a Sydney durante le proteste contro il lockdown, 21 agosto 2021
LA POLITICA DEL TUTTI CONTRO TUTTI
Le proteste evidenziano le difficoltà incontrate dalle Autorità australiane nel delineare strategie credibili, al di là di ripetute misure contingenti di limitazione della libertà di spostamento. Lo scontro politico è a ogni livello e non riguarda solo i due partiti di riferimento (i Labour che rappresentano l’opposizione e i Liberal al Governo), ma coinvolge in modo trasversale i premier dei vari Stati australiani, sempre pronti a chiudere i confini interni e a rinfacciarsi reciprocamente la responsabilità di non aver tenuto a bada la pandemia in casa propria. Un caos istituzionale senza precedenti, in un Paese tradizionalmente in grado di gestire con armonia le decisioni interne. La personalità politica più in vista al momento è indubbiamente la premier del NSW, Gladys Berejiklian, che nel giro di pochi mesi è passata da astro nascente della galassia Liberal, per aver saputo contenere efficacemente i casi di Covid-19 nel corso della prima ondata attraverso un ricorso minimo ai lockdown, a principale imputata della gestione disastrosa dell’ultimo focolaio a Sydney, con i contagi in continua crescita malgrado la città sia in lockdown ormai da fine giugno. Il cosiddetto game changer è indubbiamente rappresentato dalla nuova variante Delta, che richiede misure di contrasto molto più rigide rispetto al passato. Le restrizioni decise dal premier del NSW per fronteggiare questa nuova ondata sono invece apparse da subito blande e inefficaci. Il progressivo inasprimento delle misure nel corso delle ultime settimane appare tardivo, coi contagi ormai divampati in vaste aree di tutto lo Stato del NSW. Diverso il caso del Victoria, dove il premier laburista Dan Andrews ha fatto della lotta dura al Covid-19 un marchio di fabbrica, anche in risposta alle severe critiche ricevute nel corso della prima ondata di contagi. Melbourne ha trascorso in lockdown circa 200 giorni nell’arco dell’ultimo anno solare: un numero incredibile, che rischia di aver saturato definitivamente qualsiasi margine di sopportazione da parte della popolazione locale.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Conferenza stampa di Gladys Berejiklian, premier del NSW, sulla situazione sanitaria a Sydney, 25 agosto 2021
I PRIMI DUBBI SULLA SOSTENIBILITÀ DEL MODELLO AUSTRALIANO
Da più di un anno l’Australia viene da più parti considerata uno dei principali casi di successo a livello internazionale nel contenere il contagio da Covid-19, con appena 40mila casi registrati e meno di mille decessi. La chiusura totale dei confini nei confronti degli stranieri, il sistema di arrivi contingentati e l’obbligo di quarantena per i cittadini di rientro dall’estero, nonché un sistema di tracciamento efficiente per individuare e isolare i pochi casi registrati, hanno consentito al Paese di avere per lunghi tratti la meglio nei confronti della pandemia. Di recente, tuttavia, la strategia zero-Covid è stata messa in discussione dalla variante Delta, che sembra mostrare tempi e tassi di trasmissione incompatibili con l’aspettativa di una totale eliminazione del contagio all’interno dei confini nazionali. Nelle ultime settimane vari esponenti politici di area liberal, e in particolare il premier Scott Morrison, hanno ammesso che il Paese si appresta ad abbandonare l’obiettivo di sradicare completamente il coronavirus, e che l’unica via d’uscita nel lungo periodo è rappresentata dal vaccino. Una considerazione del tutto scontata in qualsiasi parte del mondo, ma non in Australia, dove per mesi l’agenda politica si è incentrata soprattutto sul tenere la Covid-19 fuori dai confini. Emblematico, in tal senso, è stato finora l’approccio del Governo Federale, che ha competenza in materia di campagna vaccinale. È ormai celebre l’infausta dichiarazione resa lo scorso marzo del premier Scott Morrison, che per giustificare i ritardi nella partenza del programma vaccinale dichiarava “this is not a race” (questa non è una gara).
Embed from Getty ImagesFig. 3 – Controlli di polizia al confine tra Queensland e NSW, 25 agosto 2021. La libera circolazione tra molti Stati australiani resta sospesa a causa delle restrizioni anti-Covid
IL RITARDO NELLA CAMPAGNA VACCINALE
Per comprendere i motivi di quello che fino ad oggi è stato un capolavoro di indecisionismo politico vanno analizzati vari elementi. Per un verso l’Australia ha avuto la sfortuna, e forse la miopia, di puntare quasi unicamente sul vaccino AstraZeneca, che secondo i piani iniziali doveva essere prodotto in Australia. Le raccomandazioni mediche emerse negli scorsi mesi hanno, tuttavia, costretto il Governo australiano ad accodarsi per ottenere la fornitura del vaccino Pfizer. I tempi decisamente lunghi di approvazione degli altri vaccini – Moderna e J&J – da parte della TGA (l’authority preposta a valutare la sicurezza dei farmaci in Australia), hanno contribuito a rendere l’avvio della campagna vaccinale lento e macchinoso. In parallelo ai problemi di ordine pratico in Australia si è creato un diffuso clima di scetticismo verso la necessità di un rapido accesso al vaccino, con ampie fasce della popolazione che hanno preferito rinviare di settimane e mesi l’appuntamento con la prima dose. Una campagna giornalistica estremamente allarmistica sull’utilizzo di AstraZeneca ha fatto il resto, fomentando i movimenti no-vax e i timori legati al vaccino. Un fallimento comunicativo su tutta la linea, che ha fatto precipitare l’Australia in fondo alla classifica dei Paesi industrializzati per tasso di vaccinazione. Il risultato è che solo da poche settimane il Paese ha corretto la rotta, tentando una rincorsa alla vaccinazione di massa che finalmente viaggia su ritmi soddisfacenti, ma che vede l’Australia ancora ferma a una percentuale di immunizzazione della popolazione del 30%, ben al di sotto del 59% dell’Italia o del 63% del Regno Unito. Un quadro abbastanza desolante, se si pensa che la popolazione australiana è di soli 25 milioni. Il nuovo obiettivo del Governo è vaccinare il 70% della popolazione di età superiore ai 16 anni entro la fine dell’anno, così da abbandonare la logica dei lockdown e ripristinare quantomeno la libera circolazione all’interno del Paese. Il superamento degli attuali limiti ai viaggi internazionali per gli australiani vaccinati potrebbe non avvenire prima di marzo-aprile del prossimo anno. In quanto alla completa riapertura dei confini ai cittadini stranieri il Governo non fissa invece alcuna data e non sembra per il momento orientato ad adottare un meccanismo analogo al green pass. Del resto, non è mica una gara…
Embed from Getty ImagesFig. 4 – Il premier Scott Morrison riferisce in Parlamento sulla situazione in Afghanistan, 23 agosto 2021
L’AUSTRALIA EVACUA IL PERSONALE CIVILE DA KABUL
Sul fronte internazionale anche in Australia ci si interroga sul futuro dell’Afghanistan. L’Australia è stata per lunghi anni tra i Paesi impegnati nelle operazioni militari in chiave anti-talebani e nella ricostruzione del Paese centroasiatico. L’operazione Slipper, terminata nel 2014, ha visto l’impiego di oltre 26mila soldati e ha fatto registrare 41 caduti. L’ultimo contingente di 80 soldati era rientrato solo all’inizio di quest’anno, dopo aver svolto compiti di formazione del personale militare afgano. L’Ambasciata era stata invece chiusa formalmente a maggio scorso, in previsione delle turbolenze legate al ritiro del contingente americano. Pur avendo già da tempo programmato di concedere visti umanitari al personale civile che aveva collaborato col proprio esercito, forti polemiche ha suscitato il fatto che l’Australia si sia fatta trovare impreparata a un rapido piano di evacuazione. Solo tre giorni dopo la caduta di Kabul il primo aeromobile dell’esercito australiano è riuscito ad atterrare presso l’aeroporto internazionale ancora sotto il controllo americano. Le procedure di concessione dei visti hanno nel frattempo subito rallentamenti e centinaia di afghani sono ancora in attesa di ottenere lo status di rifugiati nelle prossime ore. Clamorosa la marcia indietro sullo stato di approvazione di 100 visti destinati ai contractors che avevano lavorato presso strutture australiane in Afghanistan, le cui domande erano state inizialmente rigettate e infine approvate a distanza di 24 ore. L’ennesima dimostrazione di come il Governo di un Paese normalmente abituato a programmare le proprie mosse con estrema avvedutezza non sembri al momento in grado di adottare decisioni rapide ed efficienti a fronte di situazioni di emergenza.
Dario Privitera