IL RISCHIO DEL FALLIMENTO NIGERIANO – Proprio Boko Haram è il secondo vertice del triangolo jihadista africano. Alla luce degli avvenimenti degli ultimi anni, con i continui e sanguinosi attentati, e dello stato di emergenza da poco esteso nel nord del Paese, riflettere sulla situazione della Nigeria contemporanea conduce a individuare un aspetto inquietante: il rischio della somalizzazione. Il conflitto interreligioso e gli attentati sui quali si basa l’azione di Boko Haram, infatti, hanno l’obiettivo di abbattere lo Stato e raggiungere una condizione di totale anarchia violenta, situazione necessaria per imporre l’applicazione della legge shariatica. In questo senso, gli islamisti nigeriani agiscono anche negli interessi di potentati e classi dirigenti locali, interessati ad allontanare l’influenza di Abuja per conquistare privilegi personali o per il proprio gruppo etnico. Boko Haram (“L’educazione occidentale è peccato”) fu fondata nel 2002 a Maiduguri, nel nord-est della Nigeria, da Ustaz Mohammed Yussuf, rendendosi responsabile tra il 2009 e il 2013 di quasi 1500 morti. Per di più, il sistema nigeriano non favorisce di per sé l’unità , poiché i suoi 160 milioni di abitanti sono divisi tra duecentocinquanta etnie in 36 Stati federati e sono per il 45-50% cristiani (concentrati nelle regioni costiere e meridionali, più ricche) e per il 40-50% musulmani (soprattutto a nord e nordest, in aree più arretrate). Nel corso degli anni, Boko Haram ha incrementato la propria capacità operativa, migliorando in armamenti, organizzazione e pervasività politica. Recentemente potrebbe aver espanso il raggio d’azione anche al nord del Camerun e al sud del Niger, sebbene non sia ancora chiaro se ad agire siano membri effettivi del gruppo o miliziani di formazioni affini. La presenza confermata di membri di Boko Haram in campi di addestramento in Somalia rende inoltre più preoccupante il quadro, poiché indica la possibilità di contatti con guerriglieri asiatici, oltre a stringere la regione dei Grandi Laghi in una morsa pericolosa.
SAHEL: TRA JIHADISMO E BANDITISMO – Il terzo angolo è la rete jihadista del Sahel, i cui maggiori attori al momento sono AQIM, Ansar Dine e il Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest (MUJAO), gruppi stabilitisi tra Mauritania, Mali, Algeria e Libia meridionali, Niger e Ciad, ossia in un’area ormai prossima al definitivo collasso, stante anche la siccità che perdura da anni. Entrare nello specifico della fondazione di questi movimenti e dei loro rapporti richiederebbe uno spazio apposito, pertanto ci limiteremo ad analizzare molto brevemente le maggiori dinamiche operative, poiché la guerra in Mali, pressoché in contemporanea con le cosiddette “Primavere arabe”, ha ampliato la percezione occidentale dei pericoli nel quadrante. Le vie sahelo-sahariane sono attraversate dal contrabbando di armi e droga, nonché dal “business dei rapimenti”, ma il rinvigorimento di AQIM in concomitanza con la rivolta dei tuareg nell’Azawad ha messo in risalto come il jihadismo nella zona si sia internazionalizzato, col rischio di creare un vuoto assoluto di potere nei Paesi limitrofi. Tra l’altro, AQIM sta subendo, soprattutto attraverso la creazione di una rete di briganti mascherati da islamisti, una trasformazione in senso delinquenziale, al fine di reperire fondi per l’ampliamento del jihad. In primo luogo, i maggiori proventi derivano da contrabbando e sequestri di persona (gli ostaggi sono ceduti di volta in volta a formazioni diverse, con una catena di ricavi e una maggiore difficoltà per le Autorità di rintracciare i rapiti), ma negli ultimi due anni un’importante fonte d’entrata è stata la gestione del traffico di droga sulla rotta tra il Sudamerica e l’Europa. Il jihadismo saheliano ha mostrato di poter operare indistintamente in tutta l’Africa nord-occidentale, compiendo atti di risonanza internazionale, quali l’azione a In Amenas in Algeria e il duplice attentato in Niger di poche settimane fa.