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Educazione siberiana

 Seconda puntata con la nostra rubrica letteraria Il mondo dei mondi. In questa rubrica trattiamo di mondi “diversi”, con il filo conduttore del tema della migrazione. Una rubrica che ci aprirà gli occhi sull'”Altro” e ci darà nuovi punti di vista. La seconda opera recensita è ambientata nella Transnistria, territorio emblema della disgregazione etnica, sociale e politica seguita alla caduta dell'Unione Sovietica.

Bender, Transnistria, una regione dell’ex URSS collocata nell’attuale Moldavia, ai confini con l’Ucraina, proclamatasi indipendente ma tuttora non riconosciuta dalla comunità internazionale. Qui vivono gli Urka, i “briganti della Taiga”, i “criminali onesti”, da quando negli anni ’20 del Novecento Josif Stalin e il comunismo sovietico ve li deportarono. La vita non la godono, non la soffrono, ma la combattono, come recita l’esergo in apertura d’opera, secondo un preciso modus vivendi. Tutto fa pensare a un’epopea dal respiro quasi medievale, per la distanza e l’ignoranza che l’ovest Europa coltiva nei confronti di un mondo scomparso e per decenni combattuto. Non fosse per il nome dell’autore: lo stesso del protagonista narrante delle pagine, che palesa da subito il sottotesto non-fiction del libro. Nicolai Lilin è nato lì, nel 1980. Ci accoglie nel suo Mondo immergendo la testa in un bidone pieno d’acqua, mentre sta combattendo insieme a un plotone che scopriremo alla fine essere un’unità di sabotatori impegnati nella guerra che il regime democratico sovietico conduce contro la Cecenia. Comincia dalla fine Nicolai, anche se “sa che non andrebbe fatto”, da quando vede “ballare sull’acqua il riflesso della sua faccia e della sua vita fino a quel momento”. Con “Educazione siberiana”- didascalia che all’origine il modo identifica i ragazzi del suo quartiere, quello di Fiume Basso, da tutti gli altri, per via della fedeltà dei siberiani alle tradizioni criminali e per il loro spirito conservatore- rievoca la sua storia. La narrazione perfettamente orchestrata della sua crescita; della comunità che lo ha educato a seguire un preciso codice comportamentale, scandito da formalismi e da principi morali superiori ai propri bisogni; di tradizioni rievocate continuamente dalle incantevoli figure degli anziani. E di atti criminali. Un preciso rituale precede al loro rapporto con le armi, per cui Kolima -questo il soprannome del bambino Nicolai– nutre un’incredibile e normalissima attrazione. Pistole protette da sacre icone –gli urka sono religiosissimi cristiani ortodossi-, quelle che puoi usare per compiere crimini e mai in casa tua. E coltelli, primo tra tutti la picca, la storica arma dei criminali siberiani che “si deve meritare da un criminale adulto, purchè non sia un parente(…) che ha poteri magici:moltissimi(…) Possederne una significa essere premiati dagli adulti, avere qualcosa che ti lega per sempre al loro mondo”. Che nessuno riceve di solito prima dei dodici-tredici anni, ma che a Kolima viene data a sei. Ed è la sua picca che sembra intagliare la narrazione;che ci intarsia antiche leggende e favole siberiane, digressioni che preparano agli eventi; incide i profili dei vari personaggi che Kolima incontra, che ama e stima e le loro storie personali.

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Disegni che sembrano preludere a quelli incisi sulla pelle, i tatuaggi con cui ogni Urka imprime se stesso sul corpo:”Quando li guardavi non ti sembrava di vedere un corpo con sopra un tatuaggio, ma era il tatuaggio stesso a essere una cosa viva, con sotto un corpo”. Il tatuaggio siberiano si “soffre”, nel senso che dietro c’è un particolare significato e una vita difficile. Per Kolima, introdotto all’unica attività non criminale ammessa per la sua Famiglia nella prima adolescenza, un corpo senza tatuaggi è “fuori dal mio modo di comprendere la vita”. L’adolescenza scorre tra giornate di pesca al fiume e pomeriggi nella foresta con gli amici (indimenticabile il ritratto di Mel); in incessanti dialoghi con i “nonni” siberiani- su tutti il “maestro” di Kolima, nonno Kuzja- che gli inculcano il loro modo di capire il mondo. Un universo, quello criminale, in cui “il diritto alla parola ce l’avevano tutti, anche le donne, i minorenni, i disabili”, che sono i “Voluti da Dio”:indimenticabile Boris il macchinista, rimasto mentalmente all’età di sei anni, vittima della guerra del 1992, condotta tra la Russia e la Moldavia per il possesso della Transnistria stessa. “Bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici”. Il contesto storico dell’Unione sovietica e della successiva Russia democratica affiora tra i caratteri stampati, ma non prorompe. Perché Lilin racconta e non denuncia- a differenza di Roberto Saviano, la cui recensione su “Repubblica” lo ha lasciato scoprire al grande pubblico, che ancora tende a confonderli come figure intellettuali. Il contrasto tra un codice etico che difende le minoranze e i metodi della polizia e dei militari sovietici lascia intendere il punto di vista dell’Altro, senza porlo come assioma. Lascia capire come la lotta per la libertà di un gruppo emarginato sia superiore all’uniformazione comunista e al particolarismo feticista statunitense, senza nessuna presa di posizione e con la volontà, anzi, di far fuggire un’eventuale scelta tra le conifere dei boschi siberiani. Al termine di questa incredibile storia picaresca, dell’epopea che potremmo definire dickensiana (autore non a caso citato dallo stesso Nicolai, che ha coltivato colte letture nel suo cammino), di scelte inspiegabili a noi che viviamo fuori, ci accorgiamo che l’orrore insostenibile si annida in quelle pagine dove in scena non ci sono gli Urka, ma i loro “nemici”: formidabili quelle ambientate nel carcere minorile, tappa imprescindibile per qualsiasi siberiano. Eppure gli Urka non esistono più. L’ultimo scorcio che vediamo è la loro disgregazione sotto i colpi della postdemocrazia russa e del capitalismo selvaggio, oltre a quelli della lotta interna che vedrà i giovani scagliarsi contro i vecchi criminali e, con la tradizione cancellata, cancellare la stessa comunità. L’epilogo di ogni storia è fornito dal giovane Nicolai, che si appresta a iniziare una nuova vita, senza sapere che lo aspetta una “Caduta libera”, meccanismo innescato dalla chiamata al servizio militare e conclusosi con due anni da cecchino in Cecenia. Letta l’ultima pagina l’identificazione è tale che sembro riemergere dal bidone d’acqua fredda e guardarmi riflessa in questa grande Famiglia che ora conosco nel dettaglio. E’ un’identificazione che lo stesso Lilin ha voluto, perché ha scelto di scrivere nella mia lingua, usandola come solo chi se ne impossessa per amalgama sa fare: parole aspre, secche, talvolta recalcitranti nel tradurre concetti e tradizioni della Transnistria. Una scrittura che scivola senza orpelli barocchi e che scolpisce figure nitide e groppi in gola reali. Attrae, rapisce e ti riconsegna al tuo sociale in una veste quasi purificata dal contrasto che sorge non con il crimine “epico”, ma con il disprezzo per le diverse Alterità triplicato dall’incrociarsi degli sguardi: il tuo, quello della società civile, quello di Kolima. ”Non riuscivo a capire i meccanismi che mandavano avanti il mondo normale, dove le persone alla fine rimanevano divise, senza avere niente in comune”:lo scrive Nicolai al termine della sua scrittura, lo penso io che ho beneficiato del suo Mondo. E non posso non pensare, soprattutto dopo aver letto la storia di Ksiusa: “più vado avanti più mi convinco che la giustizia è sbagliata come concetto, almeno quella umana”.

Saùda De Volta

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