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Indonesia, nuova frontiera dello Stato Islamico

I recenti attacchi terroristici in Indonesia rilanciano gli obiettivi dello Stato Islamico nel Sud-est asiatico. Il Paese può infatti diventare testa di ponte per la creazione di un Califfato nell’arcipelago malese.

UN PAESE LAICO A MAGGIORANZA MUSULMANA

L’Indonesia è una repubblica democratica presidenziale composta da 17.508 isole, di cui solo 7mila risultano essere abitate. Il Paese, tra i più popolosi al mondo, è a maggioranza musulmana: su circa 255 milioni di abitanti, quasi il 90% della popolazione segue l’Islam, principalmente all’interno della corrente sunnita. Ma nel Paese l’Islam non è religione di Stato, in quanto la Costituzione indonesiana considera lo Stato laico e religiosamente tollerante. La Costituzione riconosce e garantisce la libertà di culto e di espressione ufficialmente a sei correnti religiose: l’Islam, il Cristianesimo protestante e cattolico, l’Induismo, il Buddismo e il Confucianesimo. Le prime forti violenze etnico-religiose nell’arcipelago esplosero quando l’economia del Paese crollò a causa della crisi finanziaria che colpì tutto il Sud-est asiatico nel 1997-98, eventi che condussero alle dimissioni dell’autoritario presidente Suharto, in carica da circa un trentennio. Il potere politico nel Paese era decentrato a livello locale, il che fece emergere lotte per il potere in numerose isole e regioni. La crisi finanziaria aumentò la povertà, la disoccupazione e l’incertezza tra la popolazione. I sentimenti nazionalistici di tipo etnico o religioso, precedentemente repressi dalla dura politica di Suharto, divamparono. Le violenze dei tardi anni Novanta, che crearono un forte caos politico, erano piuttosto esempi di lotte locali e interregionali all’interno del vuoto di potere generatosi intorno alla fine del Governo di Suharto. Dal 1999 al 2002 vi è stato nel Paese un periodo di riforme politiche che ha condotto alla revisione della Carta costituzionale in senso più liberale.

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Fig. 1 – Un artificiere ispeziona una borsa sospetta all’ingresso di una moschea sull’isola di Giava

LE TENSIONI DELL’ERA POST-SUHARTO

Con il passaggio da un regime autoritario a una democrazia decentralizzata, la violenza etnico-religiosa tese a diminuire, per poi riproporsi a causa degli scarsi successi dei primi Governi post-Suharto. Le Molucche, ad esempio, furono teatro di violenti scontri tra musulmani e cristiani, mentre la guerriglia secessionista divampò nella regione di Aceh nel 2001. Infine, nel 2002, il gruppo terrorista sunnita Jemaah Islāmiyah si rese protagonista del tragico attentato di Bali nel quale morirono oltre 200 persone.  Dal 2006 la situazione è divenuta più stabile, ma dal 2015 il Paese, guidato dal presidente Joko Widodo, ha visto l’emergere di una nuova situazione di precarietà dovuta sia alla lenta crescita economica che all’inasprimento della lotta politica interna. Gli islamisti radicali sono divenuti sempre più numerosi, in particolare quelli legati a gruppi quali il Front Pembela Islam (FPI) o il Movimento 212, protagonisti del caso politico che ha portato alla condanna per blasfemia dell’ex governatore Ahok. Essi hanno iniziato anche a sostenere posizioni più estremistiche per ottenere maggior seguito e incrementare i loro voti in vista della prossima tornata elettorale prevista nel 2019. Secondo molti osservatori, l’Indonesia e il Sud-est asiatico, dopo essere stati per anni semplice area di reclutamento e addestramento per i nuovi combattenti dello Stato Islamico, potrebbero divenire un nuovo obiettivo di conquista per i terroristi islamisti.

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Fig. 2 – Poliziotti pattugliano le strade di Surabaya, teatro dei sanguinosi attacchi suicidi del mese scorso

L’ESPANSIONE DELLO STATO ISLAMICO IN INDONESIA

Negli ultimi anni l’Indonesia ha assistito ad attacchi terroristici sempre più frequenti da parte di gruppi radicali che hanno deciso di affiliarsi allo Stato Islamico (IS). Con la quasi certa sconfitta delle bandiere nere in Medio Oriente, l’IS ha accelerato l’operazione, già iniziata dal 2015, di creare delle sue province in altre zone del globo tramite legami e affiliazioni con gruppi estremisti autoctoni. Subito dopo la proclamazione dello Stato Islamico da parte di al-Baghdādī nel giugno 2014, due leader militanti indonesiani, Abu Wardah Santoso dei Mujahideen Indonesia Timor e Abu Bakar Ba’asyir di Jemaah Anshorut Tauhid, giurarono fedeltà al neo-Califfo e si affiliarono ufficialmente all’IS. Nel 2015 il predicatore radicale Aman Abdurrahman unificò poi sotto il suo comando oltre dodici gruppi di terroristi islamisti indonesiani per rafforzare l’influenza del Califfato in Indonesia, costituendo, Jamaah Ansharut Daulah (JAD), che ha raccolto il testimone del gruppo Jemaah Islamiyah. Il JAD, è un contenitore di gruppi jihadisti autoctoni totalmente dediti alla causa del Califfato. L’organizzazione terroristica non ha una struttura formale nota, ma la polizia ritiene che sia presente in 18 delle 34 province del Paese. Molti dei combattenti del JAD sono miliziani reduci dalla battaglia di Marawi nelle Filippine o di ritorno dai territori del Califfato in Siria. Inoltre molti gruppi presenti nel Paese hanno giurato fedeltà all’IS, comprendendo che l’affiliazione avrebbe favorito notevole visibilità alle loro differenti cause. Si tratta quindi di un’alleanza per portare avanti vecchi conflitti. Dal 2016 i gruppi affiliati allo Stato Islamico hanno condotto diversi attacchi terroristici in Indonesia, tra cui quello di Giacarta del gennaio 2016 e i recenti attentati suicidi di Surabaya. I vertici dell’IS hanno inoltre incoraggiato i gruppi indonesiani a coinvolgere intere famiglie nelle azioni terroristiche. Le tre famiglie che hanno condotto gli attentati di Surabaya delle scorse settimane erano membri del JAD.

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Fig. 3 – I funerali di una delle vittime degli attentati di Surabaya, diretti principalmente contro chiese cristiane

GLI OBIETTIVI DEL CALIFFATO E I POSSIBILI MODI PER FERMARLO

Da alcuni decenni il Sud-est asiatico è obiettivo di numerosi attacchi jihadisti che riflettono l’ambizione delle correnti salafite e wahabite di costruire un Califfato nell’area. In Indonesia i gruppi estremistici legati al Califfato di Baghdadi puntano a condurre il Paese verso l’islamizzazione dello Stato, con l’obiettivo sempre più chiaro di costituire la Wilayat East Asia, la provincia del Sud-est asiatico, cercando di destabilizzare i Paesi dell’area per creare vuoti di potere ed espandersi in tutto l’arcipelago malese. La lotta contro gli estremisti e gli affiliati dell’IS è portata avanti da diversi anni dal Detachment 88, l’unità speciale antiterrorismo indonesiana, che ha arrestato oltre 800 militanti e ne ha uccisi 100. Tuttavia ciò non è bastato a bloccare l’espandersi dell’estremismo islamista e il presidente Widodo ha quindi riproposto in Parlamento la controversa legge antiterrorismo per autorizzare la polizia ad arrestare e interrogare i sospetti terroristi senza restrizioni legali. La legge aumenterebbe i poteri degli organi di sicurezza nazionali, ma rischierebbe anche di condurre ad abusi e ingiusti arresti preventivi.
Di fondamentale importanza, oltre alla promulgazione di una equa legge antiterrorismo, sono la creazione di programmi di reinserimento e riabilitazione per i foreign fighters e le loro famiglie,abbinata a una significativa riforma delle carceri. Lo Stato Islamico ha infatti apertamente reclutato nelle prigioni indonesiane piccoli criminali e giovani insoddisfatti, approfittando della cattiva gestione della prigioni, del sovraffollamento delle stesse e della scarsa vigilanza all’interno dei penitenziari, con i detenuti liberi di utilizzare i social network e gli smartphone, principale mezzo di propaganda del Califfato. Importante risulta anche il monitoraggio dei terroristi condannati che vengono rilasciati, per impedire che essi siano reclutati nuovamente dalle reti dell’IS. I jihadisti rilasciati, con poche opportunità economiche e lavorative, tornano infatti nelle loro comunità d’origine, dove sono riesposti alle idee estremistiche dei militanti. Infine, la “de-radicalizzazione”, visti i recenti avvenimenti, è un processo che deve includere tutta la famiglia e non può più rivolgersi solamente agli uomini.

Daniele Garofalo

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Secondo stime approssimative del Governo indonesiano, circa 800 persone si sono recate in Medio Oriente per combattere per lo Stato Islamico negli ultimi quattro anni. Di essi circa il 45% sono donne e bambini, completamente indottrinati, che hanno seguito gli uomini che combattevano per il Califfato nel Levante.[/box]

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Daniele Garofalo
Daniele Garofalohttps://independent.academia.edu/DanieleDaniele13

Sono nato a Salerno nel 1988. La storia, la geografia, la politica e i viaggi, sono da sempre le mie grandi passioni. Sono ricercatore e analista del Terrorismo Islamista e di Geopolitica. Ho collaborato con la rivista digitale Geopolitical Report dell’ASRIE, l’“Association of Studies, Research and Internationalization in Eurasia and Africa”, con il centro studi Geopolitica.info e con Notizie Geopolitiche.net. Collaboro con Babilon news & magazine e da maggio 2018 con il Desk Asia del Caffè Geopolitico. Per il Caffè Geopolitico mi sono occupato di monitoraggio del jihadismo globale con la newsletter “Gli Occhi nel Jihad“.

Sono Analista del terrorismo per il Centro Studi e ricerca Analytica for Intelligene and Security Studies.

Ad Aprile 2020 è stato pubblicato il mio primo libro: “Medio Oriente Insanguinato”(Enigma Edizioni), un’analisi geopolitica del contesto mediorientale e del terrorismo islamista.

Mi occupo principalmente della ricerca, studio e analisi del terrorismo islamista, dell’area mediorientale e saheliana, dell’Asia Centromeridionale.

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