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L’Indo-Pacifico alla prova dell’Ucraina (II): intervista a Lorenzo Lamperti

Le interviste del CaffèSeconda parte della lunga intervista a Lorenzo Lamperti (China Files) sull’impatto della guerra russo-ucraina sull’Indo-Pacifico. La regione si interroga sul conflitto e guarda alle potenziali mosse cinesi verso Taiwan.

La prima parte dell’intervista è qui.

A livello generale, la sempre maggiore assertività giapponese e l’elezione di Yoon in Corea del Sud sono fattori che possono alzare la tensione nel quadrante Indo-Pacifico?

Le dinamiche che si sono innescate risultano piuttosto complesse. Ogni mossa che Pechino interpreta come contrapposta a sé viene direttamente o indirettamente attribuita agli Stati Uniti. Lo stesso Giappone viene visto da Pechino come un importante attore integrato in un meccanismo di sicurezza, il Quad, che ha lo scopo preciso di contenere e tamponare l’ascesa della Repubblica Popolare. Proprio in riferimento al Quad, al netto dell’importanza strategica che riveste per Washington, personalmente credo che abbia dei limiti, ed in questo senso credo che l’incognita maggiore sia data proprio dall’India, il cui comportamento è risultato più volte abbastanza ambiguo. AUKUS, invece, può essere molto più significativo per gli americani. In breve, in Indo-Pacifico da anni si assiste ad una corsa al riarmo che, come abbiamo detto, non riguarda solo Pechino ma anche Paesi come Corea del Sud e Giappone. Inevitabilmente una simile tendenza porta a delle tensioni. Ma si tenga in considerazione che queste azioni sono frutto di mutue percezioni di minaccia per la sicurezza nazionale dei diversi Paesi nella regione.

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Fig. 1 – Il Presidente eletto della Corea del Sud Yoon Suk-Yeol parla durante una conferenza stampa all’Assemblea nazionale, Seoul, 10 marzo 2022

Mi diceva che a Taiwan in pochi si aspettato un conflitto con la Repubblica Popolare. La crisi tra Russia e Ucraina ha cambiato un po’ questa percezione?

Innanzitutto, partiamo con una premessa: i taiwanesi sono abituati alle tensioni da più di 70 anni. Quando si verificano le incursioni cinesi nella ADIZ o, ancora, quando ci sono vascelli della Repubblica Popolare che incrociano relativamente vicino all’isola, si tende a percepire questi eventi come una sorta di “parata militare”, non sono visti come step che possano portare ad una eventuale invasione. Se si parla con i taiwanesi over 30, ci si rende conto che hanno impresso nella loro memoria le tensioni della Terza Crisi sullo Stretto del 1995-1996. In quel caso c’è stato effettivamente il timore che potesse verificarsi un conflitto. In questo specifico momento, a torto o a ragione, la preoccupazione ed il timore per un’invasione non sono largamente diffusi. Per quanto la guerra tra Russia e Ucraina abbia fatto effetto su qualcuno, ci sono diversi sondaggi che mettono bene in evidenza come la crisi in corso non abbia cambiato la percezione dei taiwanesi nei confronti di una possibile guerra. A Taiwan c’è tra l’altro ancora una frangia piuttosto estesa di popolazione che si sente sia taiwanese che cinese. Questo inevitabilmente porta anche ad avere un rapporto un po’ diverso con la Repubblica Popolare stessa. Se infatti la quasi totalità dei taiwanesi non vuole essere governata dal Partito Comunista, è pur vero che ci sono comunque parti della popolazione a Taiwan che sentono ancora quel legame storico-culturale con la Cina. D’altronde ricordiamoci che il nome ufficiale di Taiwan è, ad oggi, “Repubblica di Cina”. Le cose che fanno più effetto sui taiwanesi non sono tanto le mosse militari, ma le azioni di tipo normativo. Mi riferisco soprattutto alle sanzioni o alle “liste nere” che sono state istituite negli scorsi mesi. Queste misure colpiscono essenzialmente politici, aziende che hanno sede a Taiwan ma operano nella Cina continentale e, di riflesso, tutti i loro dipendenti. Non dimentichiamo, infatti, che ci sono più di 1.5 milioni di taiwanesi che lavorano nella Repubblica Popolare. Prendiamo ad esempio il caso di Far Eastern, grossa azienda taiwanese presente in Cina che è stata multata dal Governo di Pechino in quanto aveva elargito dei fondi destinati al finanziamento di un evento al quale aveva preso parte il portavoce del Parlamento taiwanese, uno dei politici inclusi nelle “liste nere”. Il patron dell’impresa si è sentito di dover pubblicare una lettera aperta mettendo chiaramente in evidenza la sua contrarierà all’indipendenza di Taiwan. È chiaro che azioni come queste spingono aziende ed individui ad uscire dalla “zona grigia” e a prendere una decisione netta. Durante le Due Sessioni, recentemente tenutesi a Pechino, è stata poi registrata la proposta di una legge secondo la quale verrebbero colpiti non più solo i cosiddetti “super secessionisti”, ma tutti coloro i quali non si prodigano attivamente per l’unificazione di Taiwan alla Repubblica Popolare. Facciamo un paragone con Hong Kong. Il cosiddetto “prepensionamento” del modello “un Paese, due sistemi” non è avvenuto con l’utilizzo delle forze armate, ma essenzialmente per via normativa e legale. C’è poi anche un altro scenario: se effettivamente dovesse mai verificarsi un’azione militare, si pensa che essa possa essere indirizzata ad una delle isole minori, molto probabilmente su Kinmen, che in linea d’aria è lontana 2 Km dalla città di Xiamen. Se la Cina volesse agire lì, potrebbe farlo senza incontrare particolari resistenze, ed un’azione simile avrebbe delle conseguenze psicologiche molto forti. In conclusione, se è vero che i taiwanesi non vogliono l’unificazione, è anche vero che non è detto che vogliano combattere.

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Fig. 2 – Manifestazione a Taipei contro l’invasione russa dell’Ucraina, 13 marzo 2022

Volevo tornare proprio su questo ultimo punto. Come mai i taiwanesi idealmente potrebbero non voler combattere? E ancora, cosa spinge i taiwanesi a non voler essere governati da Pechino?

Abbiamo avuto la prova che gli ucraini effettivamente sono pronti a morire per il loro Paese, ma bisogna vedere, appunto, se può effettivamente valere la stessa cosa anche con i taiwanesi. Relativamente alla seconda domanda, la risposta è più di una. È chiaro che più sono giovani gli interlocutori, più è forte la cesura identitaria e culturale con la Cina. Gli stessi insegnamenti scolastici, nel corso del tempo, sono cambiati abbastanza radicalmente. Se una volta a scuola veniva studiata la storia o la geografia della Cina, della quale Taiwan era una parte, nelle stesse materie la Cina viene ora trattata come un Paese straniero. Generalizzando, dunque, si può dire che le fasce di età che includono individui progressivamente più giovani, sono anche quelle per le quali il sentimento di appartenenza alla sfera culturale e storica cinese è piuttosto ridotto. Si parla di persone che, di fatto, sono state sempre abituate a vivere in un contesto democratico a tutti gli effetti, con tutto ciò che questo implica. Quindi, più il tempo passa, più quello che c’è dall’altro lato dello stretto viene visto come meno “invitante”. Chiaramente, va detto che l’andamento di queste dinamiche è stato in gran parte determinato dalla postura tenuta dalla Repubblica Popolare stessa. Facciamo un piccolo excursus: a fine del 2018 le elezioni locali a Taiwan sono state vinte dal Guomindang. L’essere precipitata a livello politico, aveva addirittura spinto Tsai alle dimissioni dalla Presidenza del Partito Progressista Democratico, e si diceva addirittura che non si sarebbe ricandidata per le successive elezioni del 2020. Tuttavia, in occasione del Capodanno del 2019, Xi Jinping tenne un discorso durissimo su Taiwan, forse il più duro dell’ultimo decennio. Nell’intervento in questione Xi sottolineava come l’unica soluzione possibile per Taiwan fosse l’applicazione del modello “un Paese, due sistemi”, lasciando aperta la possibilità di utilizzare la forza per completare l’opera di riunificazione nazionale. Quattro mesi più tardi, poi, ebbero luogo le proteste di Hong Kong, represse violentemente dalle autorità. Risulta ovvio come l’effetto combinato di questi avvenimenti abbia portato alla rielezione di Tsai. In sostanza, più la Cina è aggressiva, più i taiwanesi si allontanano da essa. E aggiungo: la tendenza che si è innescata nel 2019, e che si è riconfermata nel 2020 con la rielezione di Tsai, risulta a mio avviso molto difficile da invertire. Proprio alla luce di questo, credo sia molto complicato andare a ricreare un dialogo politico come quello precedente al 2016. Se nelle elezioni del 2024 il DPP dovesse vincere ancora senza Tsai, che per ragioni costituzionali non potrebbe più ricandidarsi per il terzo mandato, quello sarebbe il segnale di un potenziale “punto di non ritorno” definitivo. William Lai, il probabile candidato futuro del DPP che ad oggi è in carica come Vicepresidente, è inoltre più “indipendentista” di quanto non sia Tsai Ing-wen, la cui posizione politica risulta più moderata.

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Fig. 3 – Un notiziario mostra in diretta Xi Jinping al Congresso Nazionale del Popolo, 5 marzo 2022

A fronte dell’aumento delle distanze tra Pechino e Taipei, la Repubblica Popolare potrebbe vedersi con le spalle al muro? Quali potrebbero essere, quindi, gli outcome? E ancora, è saggio a suo avviso spingere la Cina ad una condizione tale per cui non possa vedere altra soluzione se non l’utilizzo delle forze armate per risolvere la questione taiwanese?

No, decisamente non sarebbe saggio. Vedi, Taiwan è un po’ il termometro delle ambizioni cinesi e della contesa con gli Stati Uniti. Tutti gli attori, in realtà, cercano di rinviare il più possibile il momento in cui si dovranno “svelare le carte”. Una cosa è certa, le rivendicazioni su Taiwan avanzate dalla Repubblica Popolare semplicemente non potranno cessare. Ne deriverebbe un tracollo politico, in quanto concetti cardinali come la “Rinascita della Nazione Cinese” o ancora la “Nuova Era”, semplicemente smetterebbero di avere una ragione di esistere. Ma anche da parte americana, cedere a livello retorico su Taiwan significherebbe perdere la fiducia e l’appoggio degli alleati regionali. Diciamo che l’outcome preferito sarebbe quello di mantenere lo status quo, e l’87% dei taiwanesi è favorevole a questa soluzione, che all’atto pratico risulta anche quella vicendevolmente più vantaggiosa: da un lato Taiwan può costruire un rapporto commerciale con Pechino estremamente forte, dall’altro può godere della protezione militare di Washington. Il tutto in un regime di sostanziale indipendenza dalla Repubblica Popolare. Chiaramente, l’interesse comune sarebbe volto al proseguire su questa strada, ma già da anni a questa parte lo status quo viene messo effettivamente a dura prova. Da un lato gli americani cercano sempre più di recidere il cordone economico che lega Taipei a Pechino, dall’altro la Repubblica Popolare incrementa le sue pressioni sull’isola, anche a livello militare. Prima o poi, è corretto pensare che debba esserci un momento in cui si dovranno tirare le somme. In relazione a Taiwan, è poi importante capire quello che viene detto ufficialmente e quello che passa in sordina. Facciamo ad esempio riferimento ai semiconduttori. Relativamente a questo comparto, l’amministrazione Trump prima ed ora quella Biden si sono adoperate per recidere il rapporto esistente tra Taiwan e Repubblica Popolare. Di questa cosa, assicuro, non tutti a Taiwan sono contenti: se il legame tra Pechino e Taipei nel campo dei semiconduttori è profondo, ciò rappresenta anche un deterrente ad una ipotetica invasione militare. TSMC è una delle più grandi compagnie attive nel settore dei semiconduttori esistenti al mondo, e funge spesso da vero e proprio ambasciatore per Taipei. In questo senso, particolarmente emblematico è il caso relativo all’acquisto di vaccini anti Covid-19 da Fosun Pharma. Il Governo taiwanese mai avrebbe potuto compiere una manovra simile. Per TSMC, insieme a Foxconn, è stato possibile.

Ad ottobre assisteremo al XX Congresso del PCC. Cosa possiamo aspettarci?

Con tutta probabilità il terzo mandato di Xi Jinping, mentre per quanto riguarda Taiwan non si sa ancora bene con certezza. Bisogna vedere se sarà approntata una nuova misura normativa pronta per essere applicata, come quella di cui parlavamo prima. In ogni caso, ci si aspetta che Pechino faccia qualche annuncio, al limite, definisca una sorta di roadmap che possa definire i limiti temporali della cosiddetta “Nuova Era” entro la quale si è detto nella risoluzione storica e alla lianghui di voler risolvere la questione taiwanese.

Francesco Lorenzo Morandi

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  • Fino a che punto la situazione di Taiwan è simile a quella dell’Ucraina? Lorenzo Lamperti (China Files) ci spiega tutto nella seconda parte di una lunga intervista.

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Francesco Lorenzo Morandi

Dopo un percorso accademico presso la facoltà di Ingegneria Aerospaziale, mi sono recentemente laureato in Scienze della Mediazione Interlinguistica e Interculturale presso il Dipartimento di Scienze Teoriche e Applicate dell’Università degli Studi dell’Insubria (con Cinese ed Inglese come lingue di specializzazione). Dal dicembre 2020 collaboro con il Caffè Geopolitico scrivendo per il Desk Asia, ma la mia passione per la politica internazionale mi ha portato a pubblicare articoli anche per il Centro Studi “Geopoltica.info” ed il blog “China Files”.

Oltre alle attività redazionali, presso il Centro Studi “Geopolitica.info” ho anche svolto un tirocinio curricolare che mi ha visto impegnato in compiti di ricerca di materiale, gestione del sito, produzione di podcast, montaggio video e di creazione di contenuti social di vario genere (specialmente per le piattaforme LinkedIn, Facebook, Instagram, Twitter e TikTok). In parallelo con le attività del Desk Asia, svolgo mansioni similari anche per Il Caffè: nello specifico, insieme al team comunicazione, mi occupo della creazione di contenuti per le pagine Instagram e Facebook della testata.

Attualmente frequento il corso di Laurea Magistrale in Studi dell’Africa e dell’Asia presso l’Università degli Studi di Pavia.

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