In 3 sorsi – Continuiamo a ripercorrere i rapporti fra le due potenze dalla fine della Guerra Fredda, per capire cosa precede le attuali mosse protezionistiche di Trump. Dopo aver visto le origini della politica dell’engagement e dell’enorme crescita cinese, vediamo ora le politiche tenute dalle amministrazioni degli anni Duemila.
1. BUSH E OBAMA: DALL’11 SETTEMBRE AL PIVOT TO ASIA
Bush jr iniziò la sua presidenza con dichiarazioni combattive, criticando la linea di strategic partnership tenuta da Clinton e affermando che avrebbe trattato la Cina come un competitor, evidenziandone il forte aumento delle spese militari e quelle problematiche commerciali che sono ancora oggi dibattute. La svolta però non arrivò: l’11 settembre ridefinì le priorità statunitensi e portò l’amministrazione Bush a non discostarsi dall’engagement e a mantenere buoni rapporti con l’ormai gigante asiatico.
L’amministrazione Obama, puntò a rafforzare i rapporti con gli alleati del Pacifico, piuttosto che a sperare in una svolta a Pechino. Si trattava del famoso Pivot to Asia, strategia avviata nel 2011, con cui Washington cercava di ricalibrare la sua attenzione strategia dal Medio Oriente all’Asia, al fine di evitare che il rafforzamento della Cina minacciasse il sistema di sicurezza del Pacifico a guida statunitense. Il TPP, trattato commerciale che coinvolgeva i partner asiatici degli USA, era peraltro una delle chiavi di volta di questa strategia.
Tuttavia, gli impegni in Afghanistan e Iraq assorbirono anche la sua presidenza, come dimostra il fatto che il personale del National Security Council che si occupava del Medio Oriente era tre volte più numeroso di quello che si occupava dell’Asia.
Tra aspettative e problematiche, si può dire che ogni presidenza del post Guerra fredda è stata segnata da alcune azioni traumatiche da parte della Cina: Bush Sr da piazza Tienanmen, Clinton dalla crisi di Taiwan del 1995-96, Bush jr dallo scontro aereo dell’isola di Hainan, Obama dall’atteggiamento prepotente di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.
Allo stesso tempo, Pechino cominciava a guardare all’Occidente con sospetto, per via di fatti quali il bombardamento dell’ambasciata di Belgrado nel 1999 e il medesimo incidente diplomatico di Hainan nel 2001. Di pari passo, insieme a un miglioramento ben piĂą sul piano economico che su quello democratico, cresceva un nazionalismo che stava in un certo senso sostituendo l’ideologia maoista. Nazionalismo che è spesso collegato alla storia e alla cultura cinese, per le quali è sempre stata fondamentale la domanda “come rendere potente e ricca la nostra nazione?”. Inoltre proprio la recente storia cinese, segnata da guerre interne e invasioni estere (come quella giapponese degli anni ’30), ha alimentato un forte senso di insicurezza nella classe dirigente di Pechino, spingendola a un atteggiamento estremamente assertivo e diffidente in ambito internazionale.
Fig. 1 – Il Presidente Obama, la cui politica verso la Cina si è distinta per il “Pivot to Asia”Â
2.TRUMP: STRATEGIC COMPETITOR E GUERRA COMMERCIALE
L’amministrazione Trump sembra invece aver preso le distanze dalle politiche del passato, facendo pensare a una certa svolta verso cui l’attuale guerra di dazi sembra andare. La visione di Trump sulla Cina è resa chiara nell’NSS del 2017. Si dichiara infatti che l’idea di integrare nell’ordine liberale internazionale certi rivali storici con l’intento di renderli interlocutori affidabili si è rivelata erronea. La Cina viene definita uno strategic competitor che sta attuando un aggressione economica nei confronti degli USA. Ciò che è particolarmente interessante è quanto questa security strategy metta in relazione le questioni economiche con quelle politico-strategiche nell’orientare la politica estera di Washington.
Per di più, nel 2017 Pechino ha superato gli USA quanto a PIL nella parità di potere d’acquisto, fatto che corona il boom cinese degli ultimi trent’anni e che sottolinea la concretezza della sfida tra le due potenze.
Ed è proprio sul fronte economico-commerciale che Trump ha incrociato le lame con la Cina. Innanzitutto, attraverso il rifiuto, d’accordo con l’UE nel novembre 2017, di riconoscere a Pechino lo status di economia di mercato. La questione è molto calda poiché questo status, oltre a parificare la Cina alle altre potenze economiche occidentali (e non solo) sul piano delle regole dell’OMC, costringerebbe i vari Paesi a ridurre fortemente dazi anti-dumping contro le merci cinesi (e quindi la Cina avrebbe ancora più facilità nell’esportare beni a bassissimo prezzo). La vicenda risale a quando Pechino venne ammessa nell’OMC nel 2001: nel protocollo di accessione infatti le venne assicurato che, tempo quindici anni, sarebbe stata riconosciuta come economia di mercato. Di fatto, però, questa previsione temporale poteva essere rispettata solo se Pechino avesse attuato un certo tipo di riforme e comportamenti (le ragioni per cui è ben lontana dall’essere un’economia di mercato le abbiamo viste qui).
Fig. 2 – Il Presidente Trump, protagonista nell’NSS 2017 e nell’attuale guerra commerciale con Pechino
3. CONCLUSIONI: ENGAGEMENT TRA ASPETTATIVE E REALTĂ€
Proviamo ora a trarre delle conclusioni sul contesto qui ricostruito. Sarebbe semplicistico definire l’engagement come una scommessa ingenua. Tale politica era figlia di una visione liberale delle relazioni internazionali che era molto condivisa negli anni Novanta in Occidente, specialmente da esponenti del mondo politico e economico che vedevano enormi opportunità nella Cina. Era una fase in cui la Guerra fredda si era appena conclusa, gli USA godevano di una potenza senza pari e la democratizzazione di Taiwan e Corea del Sud, insieme alla caduta del comunismo nell’Europa orientale, lasciava presagire un destino simile anche per la Cina. La situazione però oggi è diversa, ed è proprio dalla Cina, che ha tratto ampi vantaggi dall’engagement, che proviene la maggiore sfida al primato statunitense. Semplicemente, ciò che sembrava appropriato in passato potrebbe non esserlo più oggi: l’engagement è da più parti vista come una strategia non più al passo con tempi, che vedono una Cina sempre meno democratica e sempre più attiva nella sua politica di potenza economica e militare.
Potete rileggere la prima parte qui.
                                     Antonio Pilati