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Ucraina, viaggio nella guerra (I): la strada per Odessa

Analisi Prima parte di un reportage esclusivo dall’Ucraina in guerra. Si comincia dalla frontiera con la Moldova e a Odessa, fra file infinite di camion, sirene che annunciano attacchi aerei e le città locali ormai quasi completamente deserte.

CAMION E CANALI

Il confine di Stato fra Moldova e Ucraina si presenta all’improvviso, al termine di una strada polverosa e non asfaltata: un container prefabbricato, dei militari con il kalashnikov a tracolla e una fila lunghissima di camion, sia in uscita, sia in entrata. Il doganiere ucraino che controlla i documenti dei camionisti, lo sguardo stanco e rassegnato, la barba incolta di alcuni giorni, esclama: “È completamente inutile che voi giornalisti veniate in Ucraina. È troppo tardi. Non c’è più nulla da fare, questo Paese è destinato a essere distrutto”. Al di là dei cavalli di Frisia e del cono di luce dei riflettori, che svettano alti e luminosi, domina il buio, interrotto solo dai fari delle luci di posizione dei camion in lontananza. Una locanda, squallida e sporca, offre ricetto ai camionisti stanchi: alcuni si fermano a dormire, altri mangiano il borsh (una zuppa di barbabietole rosse e cavolo) e ne approfittano per fare una doccia. Poi tornano nei loro camion, in attesa del mattino; alle 23, infatti, comincia il coprifuoco e l’Ucraina si ferma completamente. Già alle 5, il rombo dei motori dei tir che ripartono, riempie la striscia di terra e di aria su cui si trova la frontiera di Reni: in lontananza si scorge il Danubio. La sponda opposta appartiene già alla Romania.

La fila dei camion, in entrambe le direzioni, è infinita, lunga fino alla paura: arriva quasi fino a Izmail, a 100 km dalla frontiera. Il Mar Nero è infatti chiuso e il grano ucraino viene trasferito in Moldova e in Romania via terra, oppure via fiume. A Izmail, una città sul Danubio, dove pochi coraggiosi fanno il bagno nel fiume e prendono il sole sulla spiaggia fra i cavalli di Frisia, si costruiscono nuove banchine, si asfaltano i moli, si montano gru e si lavora instancabilmente. Una chiatta media di trasporto riesce a portare 1500 carichi di tir e può ospitare 18 membri d’equipaggio. Molto poco, rispetto a ciò che può essere trasportato da una nave commerciale marina. Prima della guerra, dai porti dell’Ucraina partivano 30 milioni di tonnellate di cereali. Adesso solo 100.000 (grazie all’accordo di Istanbul del 22 giugno scorso, il porto di Odessa è stato parzialmente riaperto e sono già partite diverse navi mercantili cariche di grano). Ci sono poi altri problemi logistici: ogni nave che lascia il porto fluviale, deve essere guidata dai “piloti dei fiumi”, uno per ogni imbarcazione. L’Ucraina e la Romania, senza il cui aiuto non partirebbe neanche una nave, ne hanno molto pochi. In più, i rumeni, che controllano il delta del Danubio, il canale di accesso al mare e il porto di Sulina, lavorano solo di giorno. Questo rallenta i lavori e causa file enormi di tir sulla strada che da Odessa conduce a Izmail. Recentemente, l’Ucraina ha aperto un nuovo canale, Bystri, che vuol dire “Veloce” e che permette alle imbarcazioni di raggiungere il Mar Nero molto più velocemente rispetto a pochi giorni fa.

Fig. 1 – Cartellone patriottico ad Arciz, in Bessarabia / Foto: Christian Eccher

BESSARABIA

La Bessarabia, o Budhak, è il triangolo di terra che si trova fra il Danubio, il Mar Nero e il fiume Dnestr. È una zona multietnica, come la Voivodina in Serbia. Un solo ponte collega Odessa e l’Ucraina a questa regione stepposa e polverosa. Se i russi abbattessero questo ponte (ci hanno provato ma non ci sono riusciti), il Budhak rimarrebbe isolato. La paura che la regione venga annessa alla Moldova o alla Romania spaventa Kiev. Lungo la strada che va da Odessa a Izmail, campeggiano cartelloni con la scritta: “La Bessarabia è ucraina”. In Romania, sui muri, compare spesso lo slogan: “La Bessarabia è rumena”.

Fig. 2 – A Odessa si balla per strada / Foto: Christian Eccher

ODESSA

La strada per Odessa è trafficata di camion carichi di cereali e di merci di vario genere. All’ingresso di ogni città o Paese di medie dimensioni c’è un posto di blocco: sacchi di sabbia, muri di cemento e intorno un intrico indefinito di trincee. I minibus che collegano Odessa a Izmail e alle altre città della Bessarabia, vengono fermati da soldati giovanissimi, armati di kalashnikov, che controllano i documenti degli uomini perché non lascino il Paese o disertino in caso di mobilitazione totale. I militari hanno sguardi severi e sospettosi ma sono gentili e trattano i passeggeri con fermo rispetto. Non sorridono mai. All’orizzonte si vede del fumo; ci sono dei combattimenti sull’Isola dei Serpenti, che l’Ucraina ha riconqustato, in maniera tale da rendere ancora più sicuro l’ingresso al Mar Nero dal Danubio. Sui minibus, nessuno sembra farci caso. Si va avanti, come se niente fosse. Raramente i viaggiatori parlano. Gli sguardi bassi o rivolti al finestrino nascondono però una stanchezza e una preoccupazione profonda.

Odessa si presenta all’improvviso, fra i posti di blocco e i numerosi soldati in mimetica che guardano con sospetto e controllano meticolosamente tutti mezzi che entrano in città. Il centro è spettrale: nonostante i caffè e i ristoranti siano aperti, ci sono pochissime persone in giro. Se ne sono andati quasi tutti. La strada principale è quasi deserta; un gruppo di giovani, con alcune chitarre e una batteria, improvvisa un concerto davanti al parco; un capannello di persone si ferma ad ascoltarli e, all’improvviso, qualcuno comincia a danzare sulle note di una canzone allegra e sincopata. Un ballo frenetico, convulso, nevrotico; un modo per esorcizzare la paura e la tensione. Seguono canzoni nazionaliste e il pubblico risponde con un fortissimo applauso e un fragoroso boato al motivo Slava Ukraini. Davanti al Teatro dell’Opera, alcune anziane signore, eleganti e mole curate, chiacchierano fra i sacchi di sabbia disposti ai lati dell’ingresso e i soldati con i fucili spianati. Questa sera va in scena “Il Barbiere di Siviglia”. Più in là, la nota scalinata Potiomkin è chiusa e i militari fermano chiunque fotografi dall’alto il lungomare. “Si aspetta da un momento all’altro l’attacco russo, via aria o via mare. Andatevene da qui”, dice un ragazzo in mimetica con fare fermo, deciso e gentile. È giovanissimo, non ha più di 18 anni. A tradire la sua età sono i tratti bambini del viso e una barba diafana è morbida, come quella degli adolescenti.

Fig. 3 – Una spiaggia sul Danubio a Izmail, piena di cavalli di Frisia / Foto: Christian Eccher

Il lungomare, d’estate frequentatissimo, è adesso quasi deserto. Le spiagge sono chiuse perché sono minate. I caffè sono aperti ma gli avventori si contano sulle dita di una mano. Poi all’improvviso un boato cupo e sordo, che secca l’aria e fa appassire il mare. Dura un istante, non si sente neppure l’eco. Subito dopo, le sirene cominciano ad urlare. Un missile ha colpito la periferia della città. Il gestore di un caffè esce dal locale, guarda oltre la collina su cui si estende le città ed esclama: “È caduta lontano, forse addirittura in provincia”. Torna all’interno del bar, la tazzina si è già riempita di caffè, bisogna spegnere la macchina e non si può fare aspettare troppo il cliente. Odessa vive un tempo schizofrenico, a cavallo fra guerra e pace, con la speranza che sia la pace a prendere presto il sopravvento in questo stillicidio di missili e attacchi aerei.

Leggi qui la seconda parte dell’articolo.

Christian Eccher

Foto di copertina: Christian Eccher

Dove si trova

Perchè è importante

  • Prima parte di un lungo reportage di Christian Eccher dall’Ucraina in guerra.
  • Mentre le aree di confine con Moldova e Romania devono affrontare l’enorme problema logistico dell’esportazione di grano, Odessa vive in una sorta di limbo, tra guerra e pace.
  • Strade e spiagge della città sono deserte, ma la gente cerca comunque di continuare a vivere, nonostante i frequenti attacchi missilistici russi.

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Christian Eccher
Christian Eccher

Sono nato a Basilea nel 1977. Mi sono laureato in Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, dove ho anche conseguito il dottorato di ricerca con una tesi sulla letteratura degli italiani dell’Istria e di Fiume, dal 1945 a oggi. Sono professore di Lingua e cultura italiana all’Università di Novi Sad, in Serbia, e nel tempo libero mi dedico al giornalismo. Mi occupo principalmente di geopoetica e i miei reportage sono raccolti nei libri “Vento di Terra – Miniature geopoetiche” ed “Esimdé”.

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